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Il Lupo e la Governante Romanzo storico

Il grande salone del castello dei Wolfe odorava di fumo, cuoio e rabbia repressa. Le candele ardevano fioche nei candelabri anneriti, gettando lame di luce tremolanti sulle pareti tappezzate di arazzi cupi e ritratti di antenati dal volto arcigno. Nickolas Wolfe — trenta anni, capelli corvini sciolti sulle spalle, bocca scolpita in una linea dura e occhi di ghiaccio, taglienti come pugnali — attraversava la sala a lunghi passi furiosi. La sua veste nera, impeccabile ma severa, strideva con la dissolutezza delle ore passate: non aveva chiuso occhio, e il sonno mancato lo rendeva più spietato che mai. I servitori si ritraevano al suo passaggio come topi braccati. Poi, inattesa, un'ombra diversa si stagliò sulla soglia. Una giovane, esile, con i capelli ramati raccolti in modo semplice e gli occhi verdi spalancati come quelli di un cervo spaventato. L'uniforme da governante le cadeva addosso un po' rigida, segno che era stata indossata con timore e fretta. Nickolas si arrestò. Quelle pupille innocenti lo irritano più di qualsiasi insolenza. — E questa… chi diavolo è? — ruggì, la voce rimbombò tra le travi scure. Sarah Wolton deglutì. — Sono... Sarah Wolton, milord. La nuova governante. Il silenzio si fece tagliente. Poi Wolfe si voltò di scatto verso il suo maggiordomo. — La governante? — ripeté, la parola grondava disprezzo. — Timoty — urlò, con una collera che parve scuotere i vetri. — Che diavolo hai combinato? Ti avevo ordinato una governante, non una ragazzina scheletrica da gettare tra i miei corridoi! Sarah sbarcò gli occhi, quasi pietrificata dall'audacia del suo stesso respiro. Era lui. Il lupo, il despota che tutti temevano. Il cuore le batteva così forte che teme di farsi scoprire. Il maggiordomo, un uomo imperturbabile, incrociò lo sguardo del padrone senza muovere un muscolo. — Milord, — disse pacato — miss Wolton possiede tutte le qualità richieste per la posizione. Nickolas Wolfe socchiuse gli occhi, freddi come acciaio. —Qualità? — sibilò. — L'unica qualità che scorgo è la sua paura. Sarah, trafitta dall'umiliazione, abbassò lo sguardo… ma non tanto da non osare un sussurro ribelle: — Forse… milord… confonde la paura con il rispetto. Un mormorio soffocato si levò tra i servi in ​​fondo alla sala. Nickolas le si avvicinò con due falcate. Lei inspirò bruscamente, le labbra tremavano, ma non arretrò. Il suo profumo di cera e legno arso si mescolava al freddo sentore dei suoi abiti neri. — Attenta, ragazzina, — mormorò, la voce bassa ma intrisa di veleno — perché nel mio castello la ribellione ha un prezzo… e io sono molto, molto bravo a riscuoterlo. Nickolas Wolfe si chinò quel tanto che bastava a dominare lo sguardo della giovane. I suoi occhi grigi la scrutavano come fossero lame puntate contro la sua pelle. Sarah ebbe l'istinto di arretrare, ma le ginocchia si rifiutarono di cedere. — Rispetto? — mormorò, la voce roca e sprezzante. — Non pronunciare parole che non conosci, piccola governante. Rispetto non è ciò che leggo nei tuoi occhi… lì vedo soltanto paura e… — il suo sguardo scivolò lento, insultante, dal volto al collo, fino alle mani serrate davanti al grembo — …un filo d'insolenza malcelata. Sarah sentì il calore salirle al volto, rabbia e vergogna miste. Stringendo i pugni, trovò un coraggio che non sapeva di possedere. — Se davvero, milord, i miei occhi tradiscono insolenza, forse è perché non sono abituata a vedere un uomo gridare a una donna come se fosse un cane. Il salone s'illuminò di un brusio trattato: i servi si scambiarono occhiate terrorizzate. Nessuno osava rispondere al conte in quel modo. Nessuno, mai. Nickolas rimase immobile un istante, sorpreso dall'audacia. Poi un ghigno crudele gli piegò le labbra. — Una lingua affilata per una creatura così fragile… — le sussurrò vicino all'orecchio, così vicino che Sarah poté sentire il calore del suo respiro. - Attenta, signorina Wolton. Nel mio castello, le lingue affilate vengono domate. Con ogni mezzo. Sarah rabbrividii, combattuta tra il desiderio di fuggire e quello di non cedere terreno. — Allora… — mormorò, con voce incerta ma decisa — …temo che avrà molto lavoro da fare con la mia. Il ghigno del conte si allargò, gelido e feroce, ma dietro quella crudeltà brillò per un istante un lampo diverso: una scintilla di curiosità, di attrazione. Wolfe si raddrizzò di colpo, voltandole le spalle con un gesto brusco. — Timoteo! — abbaiò. — Sorvegliala. Voglio sapere ogni suo passo, ogni suo respiro in questa casa. Sarah serrò i denti. Le parole le pesavano sulla lingua, eppure sapeva che un'altra ribellione l'avrebbe condannata. Rimase muta, il cuore in tumulto. Nickolas fece per uscire, la veste nera ondeggiò come un'ombra famelica. Ma, sulla soglia, si voltò di nuovo. — Benvenuta nel castello dei Wolfe, signorina Wolton. — Il tono era basso, quasi vellutato, ma grondava veleno. — Non dimentichi mai: io non tollero né paura né ribellione. E lei possiede entrambe. Le candele tremolarono quando la sua figura sparì nel corridoio. Sarah restò immobile, respirando a fatica, consapevole che ogni passo futuro l'avrebbe condotta più vicino al cuore oscuro del suo padrone… e forse anche al proprio abisso. Il primo giorno di lavoro di Sarah stava franando in un abisso di tensione. Aveva già percepito il disprezzo dei servi, il gelo dei corridoi e, soprattutto, il peso costante dello sguardo del conte, che le bruciava la nuca anche quando lui non era presente. Ma Sarah Wolton non era venuta lì per cedere. Nonostante le mani ancora tremanti, si impone di alzare il mento e di camminare come una governante degna di quel titolo. Quella sera, nel tentativo di orientarsi tra i corridoi interminabili del maniero, si ritrovò in una sala che non ricordava di aver visto. Era più intima, con un grande camino acceso che gettava bagliori arancio sulle pareti di pietra. Il crepitio del fuoco riempiva il silenzio, quasi ipnotico. E fu allora che lo vide. Un levriero maestoso,dal manto nero lucido come seta. Era alto, elegante, e se ne stava immobile davanti al camino, la testa leggermente piegata, come se l'avesse attesa. I suoi occhi… Sarah susultò. Non erano occhi di canna. Erano grigi, profondi, freddi. Erano gli stessi occhi del conte Wolfe. Il cuore di Sarah accelerò. Restò immobile, col fiato corto. L'animale la fissava, senza muovere un muscolo. Sembrava pericoloso, troppo disciplinato, troppo simile al padrone. Un passo. Appena un passo di Sarah all'indietro, e il cane inclinò la testa, seguendola con lo sguardo. Non ringhiava, non abbaiava. Ma la tensione che emanava era più minacciosa di un morso. — Così… — la voce roca e tagliente del conte ruppe il silenzio. Sarah sobbalzò, girando lo scatto. Nickolas era lì, nell'ombra della sala, come se fosse sorto dalle pietre stesse. Indossava ancora la sua veste nera, e lo sguardo divertito e crudele vagava tra lei e il levriero. — Ve lo siete già incontrati. — Le labbra di Wolfe si incurvarono in un mezzo sorriso che non addolciva nulla. — Si chiama Ombra. È fedele solo a me. Il cane abbassò il capo, quasi in segno d'assenso. Sarah rabbrividì: la somiglianza tra padrone e animale era così netta da sfiorare l'inquietante. — Non sembra... molto amichevole, milord. — disse lei a bassa voce, sperando che la sua insicurezza non trapelasse. Nickolas si avvicinò di due passi, le mani intrecciate dietro la schiena. — Non deve esserlo. — La fissò dritta negli occhi. — Nel mio maniero, la fedeltà si misura con la paura. Lo stesso vale per gli uomini… e per i cani. Sarah si morse le labbra, un misto di ribrezzo e di sfida le ardeva nel petto. — Forse… — mormorò piano — …non tutti gli esseri viventi hanno bisogno di paura per restare fedeli. Il levriero si mosse per la prima volta, un passo elegante in avanti, gli occhi fissi su di lei. Sarah trattenne il respiro, mentre Wolfe osservava la scena con un sorriso feroce. — Lo scopriremo presto, signorina Wolton. — Shadow avanzò lentamente, le zampe sottili che non producevano alcun rumore sul pavimento di pietra. Ogni passo era un presagio. Sarah rimase immobile, il cuore che martellava come un tamburo, ma il mento fermo, le labbra serrate. Un ringhio basso, quasi sordo, le vibrò nell'orecchio. Il levriero mostrerà denti candidi e letali, scintillanti alla luce del fuoco. Sarah deglutì, ma non indietreggiò. L'animale le sfiorò la gonna con il muso, annusandola. Il respiro caldo le attraversò il tessuto, facendole venire i brividi. Poi cominciò a girarle attorno, lento, silenzioso, come un predatore che misura la sua preda. Sarah lo seguiva con la coda dell'occhio, rigida, ogni fibra del corpo tesa. Un secondo annuuso, più insistente, vicino alla sua mano che tremava appena sul grembo. Ma lei non si mosse. Non volergli offrire né paura né fuga. Infine, il levriero si voltò, elegante, e tornò accanto al padrone, accucciandosi ai suoi piedi. Lì restò, immobile come una statua, ma vigile.Nickolas Wolfe osservava la scena con uno sguardo che mischiava divertimento e crudeltà. Poi inclinò il capo, le labbra si curvarono in un sorriso velenoso. — Non vi ha sbranato. — La voce era lenta, tagliente, quasi carezzevole nella sua ironia. - Direi che siete stata fortunata, signorina Wolton. Sarah inspirò a fondo, cercando di ricomporsi, le mani serrate lungo i fianchi. — Non credo sia questione di fortuna, milord. — rispose, la voce ancora più bassa ma ferma. — Forse il vostro Shadow riconosce chi non ha intenzione di inchinarsi. Per un istante, negli occhi grigi del conte balenò qualcosa di oscuro, più intenso di un lampeggio di rabbia. Una scintilla che univa furia e desiderio di sfida. Si chinò leggermente verso di lei, accarezzando distrattamente la testa del levriero. – Attenta, Sarah Wolton. — Pronunciò il suo nome come un verdetto. — Un lupo apprezza la preda che resiste… ma è sempre il lupo a decidere quando e come divorarla. Il fuoco nel camino scoppiettò, come se avesse applaudito alla sua condanna. Il mattino dopo, la campana del maniero rintoccò cupa nell'aria grigia di Londra. Sarah si era alzata prima dell'alba, nervosa e stanca, con lo stomaco chiuso dal pensiero di dover affrontare ancora il conte Wolfe. Le sale del castello odoravano di umidità e di cera consumata, e ogni servitore si muoveva i passi in silenzio, come se temesse di svegliare un predatore che in realtà non dormiva mai. Quando il sole era appena un pallido chiarore oltre le finestre piombate, Nickolas Wolfe comparve nella grande sala da pranzo. Nero come sempre, la figura alta e spietata, il volto tagliente e l'ombra del suo levriero ai piedi. Tutti i domestici erano già radunati, schierati lungo le pareti, gli occhi bassi. Sarah, in mezzo a loro, si sentiva soffocare. Ma il suo orgoglio la spinse a mantenere la schiena dritta. — Bene. — La voce del conte rimbombò come un colpo di frusta. — Oggi abbiamo una nuova… presenza tra noi. — Si voltò lentamente verso di lei, e il suo sguardo grigio la trafisse. — La signorina Sarah Wolton. Un mormorio serpeggiò tra i servi. Wolfe si concede un sorriso tagliente. — Vediamo se è degna di stare sotto questo tetto. Il suo sguardo si fece più duro. — Miss Wolton, ordiniamo che davanti a tutti vi dimostriate all'altezza del vostro incarico. — Si chinò appena, le mani dietro la schiena, il tono intriso di velenosa ironia. — Organizzate il lavoro della servitù. Ora. Sarah spalancò gli occhi. Un gelo le attraversò la schiena: non conosceva ancora la disposizione delle stanze, né i ritmi del castello. Ma si rese conto subito: non era una richiesta, era una trappola. Wolfe voleva vederla umiliata, spezzata davanti agli altri. Per un attimo il panico le strinse la gola. Poi, quasi senza pensarci, serrò le labbra. — Molto bene, milord. — La sua voce tremava appena, ma c'era una nota ferma che persino lei stessa sorprese. Fece un passo avanti, voltandosi verso la servitù. — Mary, — disse a una giovane cameriera,— provvedere alle stanze del piano superiore. Devono essere pronte entro mezzogiorno. James, voi e altri due uomini vi occuperete della legnaia, il castello non deve restare senza fuoco. Anna, occuperetevi delle cucine… Le parole le uscivano rapide, istintive, come se una forza segreta le guidasse. I servi si scambiarono occhiate incredule, ma nessuno osò disobbedire. Quando ebbe finito, Sarah tornò ad affrontare lo sguardo del conte. Il silenzio era teso, pesante. Wolfe la osservava, immobile, con le labbra incurvate in un ghigno ambiguo. — Interessante. — disse infine, la voce bassa, carica di veleno. — Avete più coraggio che cervello, signorina Wolton. Ma a volte... è proprio il coraggio a condurre le pecore dritte nella tana del lupo. Un brivido percorrere la schiena di Sarah. Eppure, mentre incrociava quegli occhi d'acciaio, si accorse che dentro di sé non c'era solo paura. C'era anche un'ombra di orgoglio… e, confusamente, una scintilla che non osava nominare. Mentre la servitù si disperdeva nei corridoi, Sarah percepiva gli sguardi che le scivolavano addosso, furtivi, taglienti come lame. Non erano soltanto occhi diffidenti: erano occhi che sapevano, che conoscevano il padrone meglio di lei. I bisbigli serpeggiavano tra le mura del maniero con la rapidità di un incendio. Bastava oltrepassare una porta, percorrere un corridoio, e già le orecchie di Sarah coglievano frammenti velenosi. — Il conte Wolfe… bellissimo come il diavolo in persona… — sussurrava una cameriera alle cucine. — Ha avuto più amanti di quanti questo castello possa contare… — rispondeva un'altra con un risolino malizioso, subito troncato dal timore che qualcuno potesse sentire. — Amanti? — ribatteva un terzo, abbassando la voce. — No, prede. Donne che hanno creduto di incatenarlo... e sono sparite, una dopo l'altra. Sarah si fermava sempre un istante di troppo ad ascoltare, fingendo di osservare un quadro o di sistemare una piega della gonna. Ogni parola era un fa. Crudele. Spietato. Autoritario. Un uomo che nessuno osava contraddire, e che tutti temevano e al tempo stesso veneravano. Eppure, sotto le candele fumose e le ombre dei corridoi, la sua bellezza tormentata era l'argomento preferito: il taglio deciso della bocca, gli occhi grigi che parevano vedere l'anima di chiunque osasse sostenerne lo sguardo, i capelli corvini che cadevano ribelli sulle spalle. Sarah si scoprì a rabbrividire. Non sapeva se fosse più per il terrore o per quell'inspiegabile turbamento che le stringeva il cuore ogni volta che pensava a lui. Un sussurro, più maligno degli altri, la fece gelare. — Dicono che il conte Wolfe abbia il dono di spezzare chiunque osi resistergli… uomo o donna che sia. Sarah serrò le mani e si imporrà di camminare via, il passo rapido nei corridoi. Non avrebbe permesso a quei pettegolezzi di insinuarsi nella sua mente. Eppure, il pensiero che ogni donna prima di lei fosse stata spezzata dal conte la inseguiva come un presagio. E quella sera,mentre il vento ululava contro le finestre e le candele sputavano fumo, Sarah non riuscì a togliersi dalla testa l'eco di quelle parole: preda… sparite… spezzate. Due giorni dopo, il destino scelse il momento peggiore per mettere Sarah alla prova. Era nel grande salone, intento a sistemare libri e qualche oggetto sotto lo sguardo ansioso di una giovane cameriera. Cercava di imparare la disposizione del maniero, i suoi infiniti dettagli, quando un gesto incauto, un passo all'indietro appena più ampio del dovuto… e accadde. Un colpo sordo. Un vaso che cadeva a terra. Il fragore di mille schegge che si spargevano come pioggia sul pavimento di pietra. Sarah sbiancò, portandosi una mano alla bocca. La cameriera accanto a lei impallidì, e poi lanciò un grido soffocato. — Oh, Santo cielo… — mormorò, le mani tremanti. — Quello… era il vaso della signorina Wolfe… della sorella del conte… Sarah ebbe un tuffo al cuore. Un ricordo della sorella morta? Si chinò d'istinto, cercando di raccogliere i frammenti, ma le mani le tremavano. — Non sapevo… — sussurrò, rivolta alla cameriera, ma non fece in tempo a dire altro. Un passo risonò sulla pietra. Poi un altro. L'aria stessa parve raggelarsi. Nickolas Wolfe era sulla soglia, la figura imponente incorniciata dalla luce fioca. I suoi occhi grigi si posarono immediatamente sui cocci sparsi. E il silenzio si fece insostenibile. — Chi… — la sua voce era bassa, minacciosa — …ha osato? La cameriera indietreggiò, incapace persino di respirare. Sarah si alzò lentamente, serrando le mani sporche di polvere, e lo fissò. — Io, signore. È stato un incidente. Il ghigno che deformò il volto del conte fu qualcosa di feroce, quasi disumano. In due falcate fu su di lei, tanto vicino che il suo respiro la investì. — Un incidente? — ringhiò. — Quel vaso era l'unico ricordo di mia sorella. E voi… — la indicò con un gesto secco, le pupille gelide — …voi lo avete profanato con la vostra goffaggine! Sarah deglutì, ma non arretrò. — Non volevo, milord. Giuro che non volevo… — Il volere non cambia nulla! — ruggì lui, il tono talmente potente da far tremare i vetri. — Siete qui da appena due giorni e già lasciate la vostra impronta velenosa nel mio castello! La cameriera tentò di parlare, ma il solo sguardo del conte la ridusse al silenzio. Wolfe era un fiume in piena. — Siete una sciagura, signorina Wolton! Una ragazzina impertinente che osa parlare, osare rispondere, come se questo non fosse il mio regno! Sarah sentì la rabbia mescolarsi alla paura. Le lacrime le pungevano gli occhi, ma si rifiutò di lasciarle cadere. — Forse, milord… — la sua voce tremava, eppure conteneva una forza inattesa — …se quel vaso significava tanto per voi, avreste dovuto dirlo. Avreste dovuto proteggere ciò che amate, invece di lasciarlo abbandonato a chiunque. Il silenzio cadde nella sala come un colpo di scure. I servi che si erano radunati poco lontano rimasero con il fiato sospeso. Nickolas Wolfe fissò Sarah, i muscoli del volto contratti,le mani serrate in pugni bianchi. La sua ira ribolliva, ma c'era anche qualcos'altro nei suoi occhi: una scintilla di sorpresa, persino ammirazione, come se quella giovane fosse riuscita a trafiggere il suo cuore di ferro. — State attenta… — sussurrò infine, con voce bassa e velenosa, il respiro teso sul volto di lei. — Non vi conviene mai più parlarmi in questo modo. O giuro... vi pentirete di essere entrata in questo castello. — …e ora, Miss Wolton, — la voce del conte si fece ancora più fredda, velenosa, scandita come un verdetto — raccoglite da sola ogni singolo frammento di quel vaso. Ora. Sarah serrò le labbra. Il cuore le batteva furioso, ma il volto restò immobile. Con calma ostinata, si inginocchiò sul pavimento gelido, piegando la schiena in una postura che sapeva di umiliazione, e cominciò a raccogliere i piccoli pezzi di ceramica con le mani nude. Wolfe la guardò ancora per un istante, gli occhi grigi come acciaio fuso. Poi si voltò e se ne andò, il mantello nero che sfiorò la pietra. La cameriera era già fuggita, lasciandola sola, inginocchiata in quel salone immenso e gelido, con il crepitio del fuoco come unico rumore. Non era stato fatto con intenzione di ferirlo, pensava Sarah, mentre i cocci le graffiavano i polpastrelli. Non voleva spezzare il ricordo della sorella. Non voleva nulla, se non sopravvivere. Ma non lo avrebbe detto, non avrebbe chiesto perdono come una colpevolezza. Due ore dopo, le dita erano rosse e intorpidite. Il mucchietto di cocci cresceva piano sul tavolo accanto a lei. Fu allora che il silenzio cambiò. Un passo felpato, poi un altro. Shadow, il levriero nero, apparve sulla soglia come un presagio, gli occhi grigi fissi su di lei. E accanto al cane, l'ombra più grande: il conte Wolfe. Sarah, distratta dall'arrivo di Shadow, non guardò ciò che faceva. Un frammento di coccio più sottile degli altri le scivolò tra le dita e le aprì la pelle del palmo. —Ah! — sussurrò, tirando indietro la mano. Una goccia di sangue cadde sul pavimento di pietra. Nickolas si accigliò di colpo. Quel lampo negli occhi grigi non era solo collera: era anche preoccupazione, malcelata sotto una corazza di irritazione. — Maledizione… — imprecò, la voce bassa ma tagliente. In due passi fu accanto a lei, piegandosi, afferrandole il polso con una stretta ferma ma non brutale. — Avete il dono di complicarmi la vita, signorina Wolton. Sarah tentò di ritrarsi. — Non è nulla, milord, posso— — Silenzio. — La sua voce era un ordine. Con l'altra mano prese un fazzoletto di lino dalla tasca e, con movimenti bruschi ma rapidi, le strinse la ferita per fermare il sangue. Sarah trattenne un susulto: il contatto era duro, ma il calore delle sue dita la scosse più del dolore stesso. — Fermata statale. — ringhiò Wolfe. — Non voglio che mi moriate dissanguata in salone. Non ancora. La frase era velenosa, eppure le dita che le fasciavano il palmo tremavano leggermente. Lui la guardava da vicino, il volto ombreggiato dai capelli neri,gli occhi grigi fissi nei suoi. Un odore di pelle, lino e fuoco li avvolse entrambi. — Vi ostinate a sanguinare nelle mie stanze ea distruggere ciò che tocco, Miss Wolton. — mormorò, la voce più bassa, quasi un ringhio. — Non so se è stupida, o se vuole provocarmi. Sarah sollevò lo sguardo verso di lui, il respiro corto. — Non… non voglio provocarla, milord. — susurrò. — Ma non mi spezzerò. Per un istante, il silenzio. Poi il ghigno sottile del conte, un lampo ambiguo negli occhi d'acciaio. — Lo vedremo, Sarah Wolton. — E, ancora piegato su di lei, serrava il fazzoletto sulla ferita, il volto a pochi centimetri dal suo, con quell'aria feroce che era insieme una minaccia e una promessa. Con un gesto secco, Nickolas Wolfe le afferrò il polso, incurante del suo sussulto. — Alzati. — ordinò, la voce fredda. Sarah, con il respiro corto, obbedì. Non ebbe nemmeno il tempo di chiedere dove la stesse portando: in pochi istanti si ritrovò trascinata lungo i corridoi bui, il passo di lui deciso, impaziente, il levriero che li seguiva come un'ombra fedele. Lo studio del conte era una tana di legno scuro e velluti consunti. Pesanti scaffali di libri, un camino che ardeva cupo, e sulla scrivania ordinata come un altare, vasi e bottigliette di vetro. Sarah si ritrovò spinta su una poltrona, mentre Wolfe armeggiava con un cofanetto. — Vi medicherò per bene, — disse secco. — Non sopporto le cose fatte a metà. Estrasse una piccola fiala e del cotone. Tornò da lei, inginocchiandosi di malavoglia, e prese di nuovo la sua mano ferita. Sarah sussultò al contatto, poi spalancò gli occhi quando lui vi versò sopra un liquido trasparente. Il bruciore fu immediato, feroce. —Ah! — gemette, cercando istintivamente di ritrarsi. Wolfe le serrò il polso con più forza. — Fermata statale. — ringhiò, un lampo gelido nello sguardo. Poi, con un sorriso tagliente, aggiunse: — Non immaginavo che un semplice graffio potesse ridurvi a un lamento. Davvero, signorina Wolton, siete meno resistenti di quanto fingiate. Sarah, le guance arrossate, trattenne le lacrime. — Non fingo nulla, milord… — rispose a denti stretti. — E se non mi spezzo, non è perché non soffro. È perché non gliene darò il piacere. Per un istante Wolfe si bloccò. Il tono della sua voce era stato velenoso, ma le parole di Sarah lo avevano colpito in profondità. Lo sguardo d'acciaio si incupì, e senza rispondere prese una benda di lino, avvolgendo con movimenti rapidi e precisi la mano ferita. Ogni gesto era brusco, quasi rabbioso, eppure la fasciatura era salda, perfetta. Wolfe annotò l'ultima striscia e lasciò andare la sua mano con uno scatto, come se scottasse. — Finito. — disse, alzandosi in piedi con la consueta imponenza. — Ora siete fasciata e meno inutile di prima. Non pretenda un grazie: non mi interessa. Sarah sollevò lo sguardo, ancora scossa dal bruciore e dal tono velenoso, ma con una scintilla negli occhi verdi. — Non pensavo certo di ringraziarla, milord. Non ne ho bisogno.Il silenzio nello studio si fece pesante, carico di qualcosa che non era solo ostilità. Wolfe la fissava, e per un attimo l'aria stessa parve vibrare come prima di un temporale. Il silenzio nello studio era soffocante. Solo il crepitio del camino spezzava l'aria pesante, mentre l'odore acre del disinfettante aleggiava ancora. Nickolas Wolfe si raddrizzò, le mani intrecciate dietro la schiena, fissando Sarah con i suoi occhi grigi, duri come l'acciaio temprato. Lei era seduta sulla poltrona, la mano fasciata stretta contro di sé, il volto pallido ma lo sguardo sorprendentemente fermo. — Siete ostinata. — Disse lui, con tono gelido, quasi di studio. — Troppo per il vostro bene. Sarah abbassò appena il capo, ma le labbra si piegarono in un accenno di sorriso amaro. — Non credo che la mia ostinazione possa minacciare un uomo come voi, milord. Il ghigno del conte fu rapido, feroce. — Non minaccia, signorina Wolton. Irritata. E non sapete quanto pericoloso possa irritarmi. Si avvicinò, due passi lenti e pesanti, fino a sovrastarla. Sarah trattenne il respiro, ma non si mosse. Wolfe chinò il capo, scrutandola come si osserva una creatura rara che si dibatte tra la paura e la ribellione. — Vi siete inginocchiata a raccogliere i cocci. Avete sofferto il dolore senza chiedere aiuto. Avete persino osato rispondermi. — La sua voce si abbassò, carica di veleno. — Credete che questo vi renda forte? Sarah, il cuore che le martellava nel petto, rispose con un filo di voce che sorprendentemente non tremava: — No, milord. Non mi rende forte. Mi rende... viva. Wolfe si irrigidì. Quelle parole erano un affronto, ma anche una confessione che lo disarmava. Nei suoi occhi lampeggò qualcosa che non era soltanto collera. - Attenta, signorina Wolton. — mormorò, chinandosi fino a sfiorarle quasi le labbra con il respiro. — La vita, in questa casa, si paga cara. E io… io decido sempre il prezzo. Sarah serrò le mani sulla veste, la gola secca, ma trovò il coraggio di replicare. — Allora il destino è puro, milord. Ma sappiate che non sono merce in vendita. Il silenzio esplose come un tuono trattenuto. Shadow, il levriero, sollevò il capo accanto al camino, percependo la tensione. Wolfe, per un attimo interminabile, rimase immobile. Poi rise, una risata bassa, priva di gioia. — Avete più spine di quanto sembri. Vi spezzerete, Sarah Wolton. È solo questione di tempo. Si voltò di scatto, aprì la porta dello studio e la lasciò lì, con il cuore in tumulto e la mano fasciata che bruciava più del taglio stesso. Quella stessa sera, il castello dei Wolfe non parlava d'altro. I corridoi, le cucine, le scale di servizio: ogni angolo era invaso da sussurri, occhi che brillavano di curiosità e di paura, risatine soffocate. Sarah Wolton era diventata il pettegolezzo della giornata. Primo, perché aveva osato — dicono i servi — distruggere il vaso della sorella morta del conte, l'unico ricordo che lui non lasciava mai avvicinare a nessuno. Secondo, e ancora più scandaloso, perché il conte stesso,il conte Wolfe, non aveva affidato la questione a Timothy o alla cuoca… ma l'aveva portata nei suoi appartamenti. L'aveva medicata di sua mano. Si era piegato su di lei. Le cameriere parlavano a bassa voce, ma con occhi accesi: — Dice che le ha fasciato la mano… con le sue stesse dita! — L'ha trascinata nel suo studio, non ha lasciato che nessuno la toccasse… — E se… — un sussurro malizioso, soffocato da una mano sulla bocca — …se fosse già nato qualcosa tra loro due? Alcuni giuravano di aver sentito che il conte le aveva parlato piano, con voce non solo collerica. Altri, più audaci, immaginavano perfino un bacio rubato, o qualcosa di ancora più inconfessabile. Sarah, nel frattempo, camminava lungo i corridoi con la mano fasciata e il capo alto. Ogni passo era un atto di volontà: ignorare le voci, i sorrisi taglienti, i mormorii che la inseguivano. Eppure, mentre cercava di convincersi che quei pettegolezzi erano solo invenzioni, sentiva ancora sulle dita la pressione delle mani del conte, il calore del suo respiro quando si era chinato su di lei. Dentro di sé cresceva una confusione pericolosa. Paura, vergogna... e un'attrazione che non voleva ammettere nemmeno a sé stessa. In fondo al corridoio, Timothy, impassibile, osservava tutto. Anche lui sapeva che nel castello dei Wolfe i sussurri diventavano ordigni. E che, quando un lupo si china su una preda, non è mai senza motivo. Una settimana era trascorsa, ma a Sarah sembrava di vivere lì da un'eternità. Le giornate si stendevano interminabili tra i corridoi gelidi del maniero Wolfe, un susseguirsi di ordini bruschi, sguardi ostili e lavoro senza tregua. Gestire un castello di quelle dimensioni era come tentare di dominare un mostro: ogni sala aveva i suoi segreti, ogni servitore i suoi rancori, e su tutto aleggiava l'ombra cupa del padrone. Il conte Wolfe non era mai diverso. Sempre vestito di nero, sempre con quegli occhi grigi che sembravano vedere troppo e giudicare ogni cosa. Collerico, autoritario, pronto a scagliare parole taglienti che ferivano più di uno schiaffo. Sarah imparava in fretta, perché non aveva scelta. Scoprì che per mantenere l'ordine bisognava rispondere con fermezza ai servi più insolenti, e che per non crollare bisognava avere una volontà di ferro. Ma la notte, quando finalmente chiudeva la porta della sua stanza, il peso del giorno la schiacciava e le mani le tremavano ancora. C'era qualcosa di snervante nel dover incrociare ogni giorno Wolfe nei corridoi, nei saloni, nel suo studio. Non c'era un istante in cui lui non sembrava pronto a coglierla in fallo. Eppure... ogni volta che i loro sguardi si incrociavano, Sarah sentiva un brivido che non riusciva a spiegarsi: paura, sì, ma anche qualcosa di più. E i pettegolezzi non si placavano. Anzi, cresceva la leggenda: il conte che l'aveva medicata, che l'aveva difesa dal cane, che la osservava con troppa attenzione. Per molti era solo la prova che lei fosse destinata a cadere sotto il suo potere,come tutte le altre donne che prima di lei avevano osato varcare quelle mura. Ma Sarah non era come le altre. O almeno, così continuava a ripetersi, ogni mattina, guardandosi allo specchio con gli occhi verdi pieni di stanchezza… e di una ribellione che non riusciva a acquistare. Il fulmine squarciò il cielo dietro le finestre alte, illuminando per un istante il salone come se fosse giorno. Sarah trasalì, il cuore in gola, la camicia da notte sottile che lasciava intravedere troppo sotto quella luce improvvisa. — Cosa ci fa la mia governante… — la voce del conte era bassa, vellutata e tagliente al tempo stesso — mezza nuda che vaga nel mio maniero a notte fonda? Sarah si girò di scatto. Wolfe era lì, appoggiato con noncuranza al bracciolo di una poltrona, un bicchiere di whisky tra le dita. I capelli neri in disordine, la camicia aperta sul petto, gli occhi grigi che bruciavano più del fuoco nel camino. — Mi… milord… io… — balbettò lei, il viso acceso di vergogna. — Non riuscivo a dormire. Il temporale... mi agitava. Il conte rimase immobile, studiandola come un cacciatore che osserva la preda incauta. Bevve un sorriso lento, poi un sorriso storto gli piegò le labbra. — Quindi vi siete detta: “perché non aggirarsi in camicia da notte, tremante e smarrita, proprio nella stanza dove il mio padrone beve per dimenticare”? — scosse il capo, ironico. — O siete ingenua, Miss Wolton... o molto più astuta di quanto io creda. Sarah serrò le mani contro i fianchi, il cuore che batteva forte. — Non sono astuta, milord. Non volevo disturbarla. Credevo di essere sola. Un tuono rimbombò, facendo tremare i vetri. Shadow, il levriero, dormiva disteso accanto al camino, indifferente. Wolfe, invece, si alzò in piedi, alto e imponente, e fece due passi verso di lei. L'alcol lo rendeva ancora più imprevedibile, eppure la sua voce era lucidissima. — Sola. — ripeté, assaporando la parola. — In questo castello non siete mai sola, Sarah. Le ombre vi osservano, i muri bisbigliano, e io… io non dormo mai. Le si fermò a un passo di distanza. L'alito di whisky e fumo la investì, e Sarah abbassò lo sguardo, stringendosi le braccia al petto come uno scudo. Ma Wolfe non si mosse ancora. — Non avete idea di che cosa significa aggirarsi qui, di notte. — mormorò, più vicino. — Potreste perdervi. Potreste imbattervi in ​​qualcuno… molto meno indulgente di me. Sarah sollevò gli occhi verdi, colmi di paura e di una ribellione che non voleva morire. — Non so cosa ci sia di indulgente, in lei, milord. Un lampione li illuminò entrambi. Wolfe la fissò, e nel suo sguardo non c'era solo rabbia. C'era fama. Wolfe posò il bicchiere sul tavolo con un tonfo secco, senza staccarle gli occhi di dosso. Il crepitio del camino ardeva, ma era il suo sguardo a bruciare di più. Con lentezza studiata le si avvicinò, fino a ridurre la distanza a un respiro. Sarah indietreggiò d'istinto, ma dietro di sé sentì il freddo del muro. Il cuore le martellava. — Avete paura di me, signorina Wolton? — sussurrò, piegando il capo,le labbra a un soffio dalle sue. — O forse… temete qualcos'altro? Sarah serrò le mani contro la pietra, cercando di mantenere il controllo. — Io... io temo solo che lei si divertita a tormentarmi, milord. Il sorriso del conte fu feroce, velenoso. — E se fosse vero? — mormorò. La sua mano sfiorò il muro accanto alla testa di lei, come per chiuderle ogni via di fuga. — Se il mio piacere fosse vedere quanto riuscite a resistere... prima di spezzarvi? Sarah inspirò tremando, ma i suoi occhi verdi scintillavano. — Non mi spezzerò. Nemmeno se mi schiaccia contro questo muro. Un lampeggio squarciò il cielo, e nel bagliore Wolfe la visione come se fosse davvero pronto a provarci. La sua vicinanza era un assedio, un calore pericoloso che la faceva vacillare. Poi, con un ghigno che mischiava crudeltà e desiderio, abbassò la voce fino a un sussurro velenoso: — Ricordatevi, Sarah... ogni fortezza ha una crepa. E io le trovo sempre. Il ghigno del conte era feroce, e nel bagliore del temporale i suoi occhi grigi brillarono di un cinismo glaciale. Fece un passo ancora più vicino, piegando appena il capo, e il suo respiro caldo e alcolico le sfiorò la pelle del collo. — Quindi ditemi… — sussurrò velenoso — è un caso che siete qui ora… così… in camicia da notte, fragile e smarrita… o è un piano astuto per cercare di sedurmi? Di entrare nel mio letto… e nelle mie grazie? Sarah sbarcò gli occhi, gelata. Il cuore le esplose nel petto: sedurlo? Lui credeva davvero che…? —Milord! — la voce le tremò, tra indignazione e paura. — Come può anche solo pensarlo? Io… io non sono come quelle donne che forse siete abituato a conoscere! Il sorriso del conte si fece sottile, tagliente come la lama di un pugnale. — “Forse”? — ripeté, mordendo la parola. — Non vi conviene insultarle, Miss Wolton... molte di loro hanno imparato ad essere più intelligenti di voi. Sarah serrò i pugni, la vergogna che si mescolava a una rabbia nuova. — Io non voglio entrare nelle sue grazie, milord. Non sono qui per lei. Sono qui per lavorare. Il tono, pur spezzato dall'emozione, conteneva una scintilla di ribellione che lo fece aggrottare le sopracciglia. Un istante di silenzio si allungò come un filo teso, con l'eco dei tuoni a scandirne il peso. Wolfe chinò di nuovo il capo, le labbra quasi a sfiorarle l'orecchio. — Non siete qui per me… — mormorò, basso, velenoso. — Ma non durerà, Sarah. Nessuna donna resiste. Nessuna. Sarah, con il cuore che martellava nel petto, alzò lentamente lo sguardo verso di lui. Le guance arrossate di vergogna e furore, gli occhi verdi accesi da una luce che il conte non si aspettava. — La vostra insolenza mi insulta, milord! — sibilò, la voce tremante ma risoluta. Nickolas si irrigidì. Era abituato a lacrime, suppliche, sottomissione. Non a quella scintilla ribelle che brillava in quegli occhi puri. Innocenti, sì… ma capacità di fendere come lame. Un ghigno scivolò sulle sue labbra. — Insolenza, dite? — La sua voce era un veleno lento, che stillava con voluta crudeltà. — Io vi insulto,Signorina Wolton? O siete voi che mi provocate, con la vostra lingua affilata e il vostro sguardo che osa sfidarmi? Si chinò ancora, i loro respiri che si mescolavano, i suoi occhi grigi che cercavano di inghiottire il verde di lei. —Attenta, Sarah. — sussurrò, con un filo di collera e qualcosa di più scuro. — Una sfida al lupo può costare… molto più di quanto pensiate. Sarah serrò le labbra, ma non abbassò lo sguardo. Anzi, sostenne il suo, un tremito impercettibile nella voce che non cancellava però la forza delle parole. — Non ho paura di lei, milord. Il silenzio si fece denso, carico, squarciato solo dal tuono che fece tremare le finestre. Shadow sollevò il capo accanto al camino, inquieto, come se percepisse la scarica elettrica che passava tra i due. Per un istante Wolfe parve davvero sul punto di piegarla con un gesto, un bacio o una condanna. Ma invece rise piano, una risata priva di gioia, amara. — Non avete paura… — ripeté. — Bene. Vedremo quanto durerà. E, allontanandosi finalmente, afferrò il bicchiere di whisky e lo sollevò verso di lei in un brindisi sprezzante. - Alla vostra audacia, signorina Wolton. È l'unica cosa che ancora vi tiene in piedi. Sarah, il petto in tumulto, fece un passo indietro, decisa a non lasciargli vedere la tempesta che le stava devastando dentro. Poi, con un inchino appena accennato, fuggì dal salone, lasciandolo nell'ombra e nel crepitio del fuoco. Il mattino seguente, il castello dei Wolfe era un alveare di sussurri velenosi. Le cucine ribollivano non solo per i paioli, ma per le lingue biforcute; nei corridoi le cameriere si fermavano a bisbigliare dietro i paraventi; persino i lacchè più disciplinati avevano negli occhi un lampo malizioso. Qualcuno l'aveva vista. La governante. La signorina Wolton. Uscire dal grande salone a notte fonda. In camicia da notte. Le voci corsero come fuoco tra la paglia: — Non era sola… il conte era lì. — Dicono che aveva il bicchiere in mano, e che l'avesse fermata… — Fermata? O forse... trattenuta? — Una donna non esce da un salone in quel modo se non ha... trattato. Ogni parola era più velenosa della precedente. Alcuni giuravano che Wolfe l'avesse attirata a sé, altri che lei stessa cercasse il suo letto. E c'era chi, ridendo sotto i baffi, sussurrava che la giovane governante stesse cercando di farsi strada come tante prima di lei... ma che questa volta il conte aveva trovato pane per i suoi denti. Sarah, passando nei corridoi, avvertiva su di sé gli sguardi. Gli occhi che ridevano, che scrutavano la sua figura alta e snella come se già fosse marchiata dalla mano del padrone. Ogni passo era un colpo al cuore, ogni sussurro una lama invisibile. Ma la cosa peggiore fu quando, entrando in biblioteca per riordinare, trovò due cameriere che si zittirono di colpo, fissandola con occhi pieni di finta innocenza. Una di loro, la più spudorata, mormorò con un sorriso sottile: — Allora, Miss Wolton… il temporale è stato… piacevole? Sarah arrossì fino alle radici dei capelli. Non rispose,serrò i denti e tirò dritto. Ma il sangue le ribolliva, non solo di vergogna. Di rabbia. Perché Wolfe non aveva solo ferito il suo orgoglio la notte prima… ora, diceva, la stava gettando in pasto alle malelingue del castello. E lei capì una cosa: non sarebbe bastato resistere. Per sopravvivere lì dentro… avrebbe dovuto combattere. Le cameriere ridevano ancora, le mani intrecciate davanti al grembiule, il sorriso pieno di malizia. Sarah, con il volto in fiamme e il cuore stretto, aveva già deciso di ignorarle e uscire dalla biblioteca. Ma un rumore secco la gelò. Un bicchiere posato con violenza su un tavolo. Un passo lento, pesante. — Continua puro. — La voce di Nickolas Wolfe era un rasoio, vellutata e crudele. Le due cameriere impallidirono, voltandosi di scatto. Il conte era lì, immobile tra gli scaffali, lo sguardo grigio che le trapassava come lame. Shadow, accucciato dietro di lui, mostrava appena i denti. — Non lasciatevi interrompere da me. — aggiunse, con un sorriso sottile che non era un sorriso. — Voglio sapere ogni dettaglio dei vostri… brillanti commenti sulla mia governante. — Mi… milord… noi… — balbettò una delle due, facendo un passo indietro. — No? — ribatté lui, improvviso e violento. — Voi siete pagati per lucidare argenti e spolverare tappeti, non per sporcare l'aria con le vostre lingue biforcute. Un silenzio di tomba. Le cameriere tremavano. Sarah non osava respirare. Wolfe fece due passi avanti, lentamente, senza staccare gli occhi dalle due malcapitate. — Se mai dovessi udire ancora una sola sillaba… una sola allusione su Miss Wolton… giuro su questo tetto che non passerete un’altra notte sotto di esso. Si fermò a un soffio da loro, la voce abbassata, velenosa: — E vi assicuro che là fuori… nessuno vi accoglierà con la stessa… indulgenza. Le cameriere annuirono, terrorizzate, e fuggirono come topi inseguiti. Rimasti soli, Sarah e il conte si trovarono improvvisamente faccia a faccia. Lei, scossa e confusa; lui, col volto ancora teso dalla collera. Per un istante che parve eterno, non parlò. Poi, abbassando il tono, Wolfe mormorò: — Ora sapete cosa significa portare il mio nome… addosso. Anche senza volerlo. Sarah deglutì, incapace di rispondere. E in quel silenzio, più terribile del temporale della notte passata, capì che il conte non l'aveva difesa per bontà. L'aveva fatto perché nessuno, oltre a lui, aveva il diritto di toccarla. Sarah non disse nulla. Il cuore le martellava in gola, la mente ribolliva di pensieri, ma la bocca restò chiusa. Si voltò appena, senza concedergli né un grazie né una spiegazione. Con passo lento e misurato, se ne andò. Lo ignoro'. Per un attimo, nel salone, calò un silenzio irreale. Wolfe rimase immobile, il bicchiere ancora in mano, lo sguardo fisso sulla porta da cui lei era uscita. Shadow si leccò una zampa, tranquillo, come se nulla fosse accaduto. Il conte serrò la mascella. Nessuno lo ignorava. Mai. Una risata amara gli sfuggì dalle labbra, breve e velenosa.Poi scagliò il bicchiere vuoto contro il camino: il cristallo si frantumò in mille pezzi, scintillando come schegge di ghiaccio sul pavimento. — Insolente… — mormorò, a denti stretti, gli occhi grigi che ardevano di un fuoco cupo. — Ma vedremo quanto durerà, Sarah Wolton. E per la prima volta dopo molto tempo, Nickolas Wolfe si scoprì inquieto. Non era lui a tenere le redini, non del tutto. Quella ragazzina dagli occhi verdi gli stava sfuggendo di mano. Sarah stava finendo di sistemare i sacchi di farina e le ceste di mele nella dispensa quando sentì il passo leggero, quasi silenzioso, di Shadow. Alzò lo sguardo e si trovò davanti il ​​levriero nero. Immobile, la fissava con quegli occhi grigi, così incredibilmente simili a quelli del suo padrone. Un brivido le corse lungo la schiena, ma restò ferma. Shadow si avvicinò, annusando l'aria. Poi, con un gesto improvviso e sorprendente, sfiorò la sua mano... e la leccò. Sarah sobbalzò, un piccolo grido soffocato sulle labbra. Poi rise, una risata lieve, nervosa ma sincera. Con cautela stese la mano e gli accarezzò la testa, il pelo setoso e caldo sotto le dita. L'ombra chiude gli occhi, docile. — Sei bellissimo… — gli sussurrò, come fosse un segreto. E Shadow... glielo concesse. Il momento fu interrotto da un fruscio. Sarah si voltò dello scatto e lo vide. Nickolas Wolfe, poco distante, in piedi nell'ombra dell'arco della dispensa. Il volto immobile, lo sguardo gelido che però tradiva, per la prima volta, un lampo… di sconcerto. Perché Shadow non si era mai lasciato avvicinare da nessuno. Mai. Solo da lui. Per un attimo, il silenzio tra i tre fu quasi sacrale: Sarah con la mano sul levriero, il cane che sembrava vegliare su di lei, e Wolfe che li osservava come se il mondo avesse improvvisamente perso una regola che credeva immutabile. Poi, la voce del conte, bassa e velenosa: — Vi consiglio di non illudervi, Miss Wolton. — Fece un passo avanti, gli occhi fissi su di lei. — Shadow non è un giocattolo da governare. È un predatore. E come ogni predatore, prima o poi... morde. Ma mentre parlava, l'animale si strinse di più contro Sarah, come a smentirlo. Il gelo nello sguardo del conte si incrinò. Appena. Sarah si raddrizzò, la mano ancora sul capo del levriero. Gli occhi verdi, di solito timidi e guardinghi, brillarono in quel momento di un coraggio che lei stessa non si spiegava. — No, signore. — disse, piano ma ferma. — Non morde. Non io. Wolfe si immobilizzò. Quel “no” gli tagliò l'aria come una lama. Si avvicinò di un passo, gli stivali che rimbombarono sul pavimento della dispensa. — Ah, vi illudete di conoscere la mia bestia meglio di me? — la voce era un veleno sibilante, più basso e pericoloso del solito. — Pensate che un paio di fusa e un tocco vi rendano padrona di ciò che nemmeno i miei uomini osano sfiorare? Sarah non abbassò lo sguardo. Accarezzò con delicatezza l'orecchio di Shadow, che inclinò la testa con aria tranquilla. — Non sono io che l'ho scelto. — ribattè,la voce incrinata dall'emozione ma incredibilmente ostinata. — È lui che mi ha scelto. Per un istante, il silenzio si fece più tagliente di qualsiasi urlo. Lo sguardo grigio di Wolfe scintillava di collera… e di qualcosa di più oscuro, quasi turbato. Shadow si era spostato appena, come per frapporsi tra i due. Nick serrò la mascella. - Vi credete speciale, signorina Wolton? — Il tono era glaciale, ma il respiro leggermente più rapido lo tradiva. – Stato attento. Le illusioni… sono catene più insidiose di qualunque collare. Sarah deglutì, ma non indietreggiò. — Non sono io ad avere catene, milord. — susurrò. — Non più di quante ne abbiate voi. Wolfe restò a fissarla, incapace di distogliere gli occhi. Poi, con un gesto brusco, girò i tacchi e se ne andò, l'eco dei suoi passi che svaniva nel corridoio. Sarah si accàsciò contro il muro, il cuore in gola. Aveva osato troppo. Ma Shadow, docile, appoggiò il muso sulle sue ginocchia, come a confortarla. E per la prima volta, lei si sentì meno sola in quel castello. Quel giorno Wolfe era una tempesta. Il maniero intero tremava al suono della sua voce. Ogni porta sbatteva, ogni ordine era un ruggito, ogni servitore cadeva vittima della sua furia. Non c'era pane che fosse cotto al punto giusto, non c'era candeliere abbastanza lucido, non c'era gesto che non scatenasse un insulto. E infine... toccò a lei. La sala grande era gremita di servitori, schierati in attesa degli ordini serali. Sarah, con il registro delle custodie stretto al petto, si fece avanti con passo esitante. Wolfe era già scuro in volto, un bicchiere di brandy abbandonato sul tavolo accanto a lui. — Signorina Wolton. — La voce era gelida, carica di veleno. — Mi dite che questo è l'inventario corretto? Sarah deglutì. — Sì, signore. Tutto è stato verificato due volte. Wolfe afferrò il registro, lo sfogliò di scatto, poi lo scagliò a terra con un tonfo secco. — Doppio errore! — Ruggi. — Vino mancante, spezie non annotate… e un ammacco di farina! Due volte, dite? O siete incapaci, o mi prendete per un idiota! Un mormorio serpeggiò tra i servi. Sarah si irrigidì, il volto acceso di rossore. — Milord, io… io vi assicuro… — — Zitta! — urlò Wolfe, il volto a un passo dal suo, gli occhi grigi fiammeggianti. — Non osate giustificarvi! Voi non siete altro che una ragazzina presuntuosa, convinta di poter dirigere questa casa come se fosse una bambola da spolverare! Il silenzio fu assoluto. Tutti la guardavano. Nessuno respirava. Wolfe le afferrò il polso, sollevandole la mano fasciata, ancora segnata dal taglio dei cocci del vaso. — Guardatela! — ringhiò, mostrando la benda agli altri. — Questo è ciò che siete: un pericolo per voi stessi, e un peso per me! Sarah trattenne il fiato, il cuore in gola. Sentiva gli occhi dei servitori su di lei, percepiva il calore delle lacrime che voleva disperatamente trattenere. Poi Wolfe la lasciò andare, con uno scatto di disgusto, come se fosse un oggetto inutile. — Ricordate questo giorno, signorina Wolton. — disse,basso e velenoso. — Vi ho umiliata davanti a tutti. Perché è lì che meritate di stare: in ginocchio, a raccogliere gli errori che seminate. Un brivido percorse l'intera sala. Nessuno si muoveva. Sarah rimase immobile, le mani che tremavano, lo sguardo fisso sul pavimento. Ma dentro di sé, tra le lacrime che non voleva concedergli, qualcosa di nuovo prese forma: una rabbia silenziosa, fredda, più tenace della paura. E Wolfe, voltandole le spalle con un gesto brusco, non si accorse che proprio in quell'istante aveva acceso la scintilla più pericolosa. Sarah attesi. Un minuto. Dovuto. Tre. Poi, con il cuore che le martellava in petto e le guance ancora bagnate di rabbia, si diresse verso lo studio del conte. Spinse la porta senza bussare. Nickolas Wolfe era lì, in piedi accanto alla scrivania, le mani serrate sul dorso di una sedia come per spezzarla. Si voltò, lo sguardo di ghiaccio che subito si incendiò vedendola entrare senza permesso. — Avete osato seguir— — Sì! — lo interruppe lei, la voce alta, incrinata ma fiera. — Ho osato! Dopo l'umiliazione che mi avete inflitto davanti a tutti… non potevo tacere! Il silenzio calò pesante. Wolfe la fissava, incredulo. Sarah, tremante ma determinata, avanzò un passo. — Voi potete urlare, potete insultarmi, potete farmi a pezzi davanti alla servitù… ma io non sono la vostra pedina, né la vostra vittima! — Il petto le si sollevava affannosamente, gli occhi verdi ardevano di sfida. — Io sono Sarah Wolton. E non mi piegherò mai a voi, milord! La collera del conte ribollì, confusa da una scarica oscura che gli attraversò le vene. In un istante fu su di lei: la afferrò per un braccio, stringendolo con forza brutale, abbastanza da strapparle un gemito. — Stato zitta. — sibilò, il volto a un soffio dal suo. Sarah scosse la testa, gli occhi che lampeggiavano di lacrime e rabbia. - NO! Non taceró! Non più! Fu allora che Wolfe, come spinto da un istinto feroce e incontrollabile, abbatté il muro. La trasse a sé con uno strappo e le premette le labbra sulle sue. Un bacio impunito, rabbioso, velenoso. Sarah spalancò gli occhi, colpita dalla violenza di quel gesto. Avrebbe voluto respingerlo, eppure il cuore le balzò in gola, sconvolto da quella vicinanza che la incendiava. Le mani tese contro il suo petto tremavano, divise tra resistenza e una forza magnetica che non aveva mai conosciuto. Wolfe si staccò appena, il respiro caldo e irregolare contro il suo viso. Gli occhi grigi, torbidi, non erano più solo collera. Erano desiderio. Pericoloso. Inconfessabile. — Maledizione… — mormorò, la voce roca. — Voi siete la mia rovina, Sarah. Per un istante, il mondo restò sospeso. Il sapore amaro del bacio, il respiro caldo di lui, la stretta sul suo braccio. Poi, la furia. Sarah lo spinse con forza, liberandosi dalla sua presa, e la sua mano partì di scatto. Uno schiaffo. Secco. Bruciante. L'eco rimbombò nello studio come un colpo di pistola. — Come vi permettete?! — gridò, la voce spezzata dall'ira.— Io non sono una delle vostre amanti! Non sono un giocattolo da strapazzare a piacimento! Wolfe rimase immobile, la guancia arrossata, gli occhi grigi fissi su di lei. Non era abituato ad essere respinto. Mai. Un lampo di collera attraversò il suo sguardo, ma fu diverso dal solito: meno sicuro, più incerto. Sarah, il petto che le si alzava a ogni respiro, avanzò un passo. — Voi potete urlare, insultare, umiliare… ma non avrete mai questo potere su di me. Mai! Per un istante fu lei a dominare la scena: piccola e fragile nella sua camicia semplice, ma eretta e fiera, gli occhi verdi incandescenti. Nickolas serrò la mascella, le mani tremanti per trattenere l'impulso di afferrarla ancora. Una parte di lui urlava di schiacciarla, piegarla, dominarla. Un'altra — quella che lo terrorizzava di più — voleva solo baciarla ancora. Il silenzio si fece assortinte. Fu Sarah a spezzarlo: — Non osate più toccarmi, milord. — La voce era bassa, rotta dall'emozione, ma vibrante di forza. — O giuro... ve ne pentirete voi. E senza aspettare risposta, si voltò di scatto e lasciò lo studio, il rumore deciso dei suoi passi che echeggiava lungo il corridoio. Wolfe rimase lì, solo, il respiro affannoso e lo sguardo fisso sulla porta chiusa. Poi, con un ringhio soffocato, scaraventò un calamaio contro il muro. — Dannata… insolente… strega… — mormorò, ma la sua voce tremava. Perché, nonostante lo schiaffo, nonostante la ribellione… il sapore di quelle labbra gli bruciava ancora addosso. Le urla, il fragore di oggetti infranti, il colpo secco dello schiaffo... nulla rimase celato dietro la porta dello studio. Il maniero intero trattenne il respiro. E presto, come sempre accadeva tra quelle mura, le voci si fecero eco. Prima un sussurro in corridoio. Poi un bisbiglio in cucina. Infine, un mormorio generale che correva di stanza in stanza: — La governante… ha alzato la mano sul conte! — Impossibile! — L'ha schiaffeggiato, giuro su Dio! — E lui? — Non l'ha scacciata! Non ancora… Le cameriere ridevano isteriche, metà terrorizzate e metà euforiche. I valletti scuotevano il capo, convinti che la giovane non avrebbe visto l'alba del giorno dopo. Alcuni, i più arditi, scommettevano già sul numero di ore che le restavano. Eppure, dietro ogni voce, ogni risata soffocata, c'era un brivido. Perché nessuno, mai, aveva osato tanto. Nessuno aveva affrontato il Lupo e ne era uscito vivo. Sarah camminava per i corridoi a testa alta, le guance ancora arrossate, il cuore in tumulto. Sapeva che tutti parlavano di lei, che ogni sguardo era puntato addosso. Ma non si piegò. Non quella volta. Wolfe, intanto, era sparito nel suo studio, la porta chiusa con uno scatto che fece tremare i cardini. Nessuno ebbe il coraggio di bussare. Solo Shadow, fedele, vegliava davanti all'uscio come un guardiano silenzioso. E il castello intero, quella notte, atese. Aspettai la punizione. Aspettò il grido della governante cacciata. Aspettò il fragore dell'ira del conte. Ma non accadde nulla.E quel silenzio… fu il pettegolezzo più spaventoso di tutti. Sarah non è riuscita a chiudere l'occhio. Distesa sul suo letto, fissava il soffitto immerso nell'ombra, le mani serrate sul lenzuolo. Ogni volta che chiudeva gli occhi, riviveva quel momento nello studio. Quel bacio. Il suo primo bacio. Non dolce, non sognato come nelle storie che aveva udito da bambina. Ma duro. Ruvido. Impetuoso. Eppure… incandescente. Le labbra le bruciavano ancora, come se il contatto fosse rimasto inciso sulla pelle. Sentiva il peso della sua stretta sul braccio, il respiro caldo e rabbioso sul volto, il battito del cuore impazzito. Era stato un furto, una violenza al suo orgoglio, una sfida al suo stesso essere. Eppure dentro di sé non riuscivamo a ignorare il tremito che l'aveva attraversata. Il desiderio proibito che le aveva incendiato le vene. «Perché?» pensava, voltandosi nel letto. «Perché lui? Perché in questo modo?» Le parole del conte rimbombavano ancora nelle sue orecchie: Voi siete la mia rovina, Sarah. E lei, pur odiandolo, pur disprezzando la sua arroganza, temeva che quelle parole fossero vere. Un tuono lontano fece vibrare i vetri della finestra. Sarah si strinse nelle coperte, gli occhi pieni di lacrime non versate. Non avrebbe mai ammesso ad alta voce ciò che il cuore già sapeva: che quel bacio l'aveva marchiata. E che da quella notte nulla sarebbe più stato come prima. Il mattino seguente, Sarah si alzò con gli occhi gonfi e la testa pesante. Non aveva chiuso occhio: ogni volta che le palpebre cedevano, il ricordo di quel bacio tornava a incendiarla, lasciandola senza respiro. Indossò l'abito scuro da governante con gesti incerti, cercando di ricomporsi, ma lo specchio le rimandò un volto pallido, segnato da ombre sotto gli occhi. «Non devono accorgersene» si disse. «Non lui.» Scese nei corridoi. Il maniero era già in fermento, i passi rapidi della servitù, i comandi urlati nelle cucine. Ma ovunque andasse, Sarah avvertiva sguardi su di lei. Sapeva che i pettegolezzi non si erano spesi: anzi, ribollivano più che mai. E poi lo vide. Nickolas Wolfe era nel grande salone, in piedi accanto al lungo tavolo, un bicchiere in mano anche a quell'ora del mattino. Indossava il consueto nero, gli occhi grigi taglienti, il volto impenetrabile. Sarah si bloccò. Avrebbe voluto fuggire, ma i suoi doveri la portarono dritta verso di lui. Quando si avvicinò, il conte abbassò lentamente il bicchiere, fissandola. Il suo sguardo la scrutò con crudele precisione, soffermandosi sulle occhiaie, sulla stanchezza impressa nel volto. Un sorriso sottile, velenoso, gli increspò le labbra. — Avete dormito male, signorina Wolton? — domandò, la voce gelida, volutamente lenta. Sarah serrò i pugni. — Ho... ho molto lavoro, milord. —Ah. — Fece un passo verso di lei, costringendola ad alzare il mento per sostenerne lo sguardo. — Curioso. Anch'io ho passato una notte... agitata. Un brivido le corse lungo la schiena. Gli occhi di lui non la lasciavano, e l'allusione era fin troppo chiara.Sarah arrossì, il cuore che batteva all'impazzata, ma non abbassò lo sguardo. — Vi prego di non confondere i miei doveri con altro, milord. — La voce era debole, ma ogni parola un atto di resistenza. Wolfe inclinò il capo, studiandola come un predatore che si divertiva con la preda. Poi, piano, sussurrò: — Sarebbe impossibile, Miss Wolton. Voi… siete già altro. E la lasciò lì, con quella frase ambigua che le pesava addosso come una catena. Sarah uscì nel cortile interno del maniero con il fiato corto, il cuore che ancora martellava dopo quelle parole. L'aria fresca del mattino le pizzicò le guance e le fece tirare un sospiro tremante. Aveva bisogno di spazio, di silenzio, di qualcosa che non fosse quegli occhi grigi a perseguitarla. Si appoggiò contro il muro di pietra, stringendo le mani al petto. «Non posso… non devo lasciarlo entrare così dentro di me» mormorò, chiudendo gli occhi. Fu allora che sentì un rumore lieve dietro di sé. Aprì gli occhi, e lo vide. Ombra. Il levriero nero, maestoso, si muoveva con grazia felina tra le ombre del cortile. La guardava, immobile, con quegli occhi grigi che tanto le ricordavano il padrone. Sarah trattenne il fiato. Poi, con lentezza, tese una mano. — Ehi… bello… sei tu, vero? — susurrò. Il cane avanzò, annusandola come la prima volta, e infine poggiò il muso contro la sua mano, docile, quasi protettivo. Sarah ridacchiò pianoforte, incredula. — Oh, Shadow… tu almeno non mi giudichi. Si accovacciò sull'erba umida, e il levriero si lasciò accarezzare. Sentiva il calore della sua pelliccia, la forza viva sotto quel manto lucido. In quell'istante, non era più sola. — Non so come tu riesca a sopportarlo… — gli sussurrò, chinando il capo sul suo collo elegante. — È un uomo impossibile. Freddo... crudele... eppure... La voce le si spezzò. Non voleva ammettere a sé stessa il pensiero che aveva sfiorato. Ma Shadow, silenziosa, la fissava come se già sapesse. Restarono così per un tempo che sembrò sospeso, Sarah rannicchiata accanto all'animale, e il maniero, per la prima volta, sembrò lontano. Poi un rumore secco di passi alle sue spalle la fece gelare. Shadow si irrigidì, ma non si mosse. Sarah alzò lo sguardo, il cuore che le balzò in gola. Era Wolfe. Stava lì, immobile, con lo sguardo più oscuro che mai. — Non so come ci siete riusciti, Miss Wolton… — la voce di Wolfe tagliò l'aria come una lama, bassa e ironica. — Ma avete “sedotto” il mio cane. Sarah sobbalzò, le dita ancora affondate nel pelo di Shadow. Si voltò di scatto e lo trovò lì: il conte, alto e scuro come un presagio, le braccia conserte, lo sguardo di ghiaccio che scivolava ora su di lei, ora sull'animale. — Milord… io non… — balbettò, imbarazzata. Wolfe avanzò lentamente, ogni passo un atto di dominio. Shadow non si mosse, rimase accanto a Sarah come a volerla proteggere. — Non si è mai lasciato avvicinare da nessuno. Nessuno. Eppure voi… — inclinò il capo, con un ghigno che non era né sorriso né minaccia, ma entrambe le cose.— Avete trovato la chiave anche di lui. Sarah si alzò in piedi, il cuore che le martellava nel petto, le mani sporche d'erba. — Non l'ho sedotto, milord. Ho solo... mostrato gentilezza. Gli occhi grigi del conte lampeggiavano di schermo. — Gentilezza. — Ripeté la parola come se fosse un insulto. — È così che destino, dunque? Una carezza, uno sguardo… e persino il più feroce dei lupi vi si accuccia ai piedi. Sarah arrossì, stringendo i pugni. — Non sono io a piegarli, milord. Forse è il mondo che ha solo sete di un po' di umanità. Per un istante, Wolfe parve irrigidirsi. Quel colpo era arrivato al cuore della sua ombra. Ma il suo sorriso tornò subito, tagliente e velenoso. — Attenta, Miss Wolton… — mormorò, facendo un passo in più verso di lei. — Le parole che pronunciate rischiano di domare più bestie di quante possiate immaginare. Sarah sostenne il suo sguardo, con il fiato corto ma il mento alto. L'ombra, tra loro, rimase immobile, silenziosa testimone di quella battaglia invisibile. Wolfe fece un passo ancora, così vicino che Sarah poté sentire l'odore di whisky e legno affumicato che lo accompagnava, la stoffa nera del suo abito che sfiorava la sua veste semplice. Il suo volto era piegato verso di lei, gli occhi grigi che la trapassavano, il respiro lento e calcolato. — E se provassi io stesso, Miss Wolton… a vedere quanto “umanità” sapete elargire? — mormorò, velenoso, abbassandosi fino a sfiorarle quasi le labbra con la sua voce. Sarah sussultò, il cuore che si ribellava contro il petto. — Milord… vi state comportando come… — tentò, ma le parole si strozzarono quando lui posò la mano al muro, alle sue spalle, intrappolandola in una gabbia invisibile. Era un gioco crudele, un duello senza armi. La vicinanza bruciava, il peso del suo sguardo era una catena. Ma fu allora che accadde l'imprevisto. Un ringhio. Profondo. Ferale. Il suono gutturale spezzò il momento come un fulmine. Wolfe si immobilizzò. Lentamente abbassò lo sguardo: Shadow, il suo levriero, era a un passo da lui. Le orecchie tese, i denti scoperti, gli occhi grigi accesi da un avvertimento primordiale. Il cane non ringhiava contro Sarah. Ringhiava contro di lui. Per la prima volta, Nickolas Wolfe parve sconcertato. Una crepa nella sua maschera impenetrabile. Sarah, con il fiato corto, osò sussurrare: — Perfino lui sa riconoscere il pericolo, milord. Il silenzio si fece denso. Wolfe serrò la mascella, il suo orgoglio ferito più dal gesto dell'animale che dalle parole della donna. Eppure, non si mosse. Ombra non arretrò. L'aria era colma di tensione: l'uomo e la bestia, entrambi dominatori, ma ora l'uno contro l'altro. Mi in mezzo, Sarah. Wolfe serrò la mascella, e un lampo di collera gli attraversò lo sguardo. Non era un uomo abituato ad essere sfidato. Non dagli uomini. Non dalle donne. E di certo non dal suo stesso cane. — Così, Shadow… — mormorò, basso, velenoso, chinandosi appena verso l'animale. — Ti ribelle anche tu, adesso? Il ringhio del levriero crebbe, vibrante, profondo.Sarah restò immobile, il cuore che le balzava in gola: non aveva mai visto nulla di simile. Wolfe avanzò di mezzo passo, portandosi quasi a toccare il muso dell'animale, lo sguardo duro come acciaio. — Vuoi proteggere lei da me? — ghigno. — Io sono il tuo padrone. Io ti ho forgiato. Un istante che sembrerò infinito. Shadow spalancò le fauci, un guizzo bianco dei denti, pronto a scattare. Sarah gridò piano, istintivamente portandosi davanti al cane, le braccia aperte come un fragile scudo. —Basta! Fermatevi entrambi! Wolfe si bloccò, il petto che si sollevava e abbassava furioso. Shadow restò in posizione, ma smise di ringhiare, fissando l'uomo con occhi ardenti. Per un lungo attimo, ci furono solo i respiri accesi di tutti e tre. Poi Wolfe scostò lo sguardo, voltandosi di lato. Il pugno chiuso tremava appena lungo la cucitura dei suoi pantaloni. Era una ritirata, seppur mascherata da freddezza. — Contatevi fortunata, Miss Wolton — disse, la voce bassa ma intrisa di veleno. — Nessuno ha mai osato frapporsi tra me e la mia volontà. Nessuno… e restare in vita. Detto ciò, si voltò e si allontanò a lunghi passi, lasciandola con Shadow, il cuore che le batteva ancora come impazzito. Ma mentre il rumore dei suoi stivali si spegneva nel corridoio, Sarah comprende che qualcosa si era incrinato. Non era più solo lei a sfidarlo. Ora, persino il suo fedele lupo era schierato. Da quel giorno, Shadow non la lasciò più. Ovunque andasse, Sarah si voltava e lo trovava lì: silenzioso, vigile, i suoi occhi grigi fissi su di lei come un guardiano invisibile. La mattina, all'ingresso della dispensa. Il pomeriggio, nei corridoi ombrosi del maniero. La sera, persino davanti alla porta della sua fotocamera, come un'ombra fedele. E se all'inizio Sarah provava imbarazzo, presto scoprì che quella presenza le dava una forza inattesa. La proteggeva non solo dallo sguardo feroce del conte, ma anche dalle lingue taglienti della servitù. Perché i pettegolezzi, inevitabili, erano esplosi come un incendio incontrollabile. — Hai visto? Il cane la segue ovunque! — sussurravano le cameriere. — Non è naturale… non è normale… — Prima il conte, ora il levriero… è stregoneria, vi dico io! — Una strega, sì! Ha ammaliato entrambi. E non ci vorrà molto prima che accada l'irreparabile… Le parole correvano di bocca in bocca, gonfiate, avvelenate. Alcuni servitori cominciarono a fuggire quando Sarah passava, facendo il segno della croce. Altri la fissavano con un misto di paura e rispetto, come se dietro quella giovane dal viso innocente si celasse un potere oscuro. E nel cuore del maniero, il pettegolezzo più velenoso di tutti si faceva strada: La governante non solo aveva sedotto il padrone, ma anche il suo cane. Sarah li sentiva, quei bisbigli. Li sentiva ogni volta che entrava in una stanza e le voci tacevano di colpo. Ma non abbassava lo sguardo. Shadowgrigi, più cupi che mai, come se lottasse contro qualcosa che non riuscivamo a dominare. E quell'assenza di reazione... era più minacciosa di mille urla. Il fienile odorava di fieno umido e di cavalli. Sarah vi era entrata per recuperare un secchio lasciato lì poco prima, i capelli ramati che le scivolavano sulle spalle sotto la cuffia, le mani ancora arrossate dal lavoro. Non si accorse subito di non essere sola. — Miss Wolton… — la voce roca alle sue spalle la fece voltare di scatto. Era Thomas, lo stalliere, un giovane robusto, gli occhi scuri e un sorriso che non aveva nulla di gentile. — Dovreste essere alle scuderie, Thomas — disse Sarah, un po' irrigidita. Lui sorge, avvicinandosi con passo lento. — E voi, invece, non dovreste giocare con i cuori, Miss. Prima il conte… ora persino il suo cane… dicono che li avete entrambi stregati. Sarah impallidì. —Sciocchezze! Non sapete quello che dite. — Oh, io così bene invece. — E prima che lei potesse arretrare, le afferrò il polso con forza, trascinandola contro la parete di legno. — Una donna come voi… è fatta per baciare, non per servire. — Lasciatemi! — gridò Sarah, divincolandosi, il cuore che le batteva furioso. Ma Thomas si chinò, cercando di rubarle un bacio, il respiro caldo e sgradevole a un passo dal suo volto. Poi accadde. Un boato. Una voce ruggente, cupa, devastante. —BASTARDO! La figura del conte Nickolas Wolfe piombò nel fienile come un fulmine nero. Prima ancora che Sarah potesse gridare, Thomas fu strappato via da lei con una forza brutale. Wolfe lo afferrò per il bavero, lo sollevò come fosse un fuscello, e lo scaravenò a terra. Il rumore del corpo che colpiva il pavimento fu seguito da un pugno. Poi un altro. E un altro ancora. La furia del conte era cieca, devastante. Il viso di Thomas divenne presto una maschera di sangue. Wolfe non si fermava, ogni colpo era carico non solo di ira, ma di qualcosa di più oscuro, più profondo, che sembrava divorarlo dall'interno. —AVETE OSATO! — urlava, la voce cavernosa, quasi disumana. —AVETE OSATO TOCCARLA! Sarah rimase pietrificata, le mani tremanti serrate al petto. Non aveva mai visto tanta violenza, tanta furia cieca. Non era più un uomo, era un demone scatenato. —Milord! — gridò infine, trovando voce tra le lacrime e il terrore. — Fermatevi! Lote uccidere! Wolfe sollevò il pugno ancora una volta, pronto a colpire. Ma quelle parole… la sua voce… lo bloccarono. Restò immobile, il petto ansimante, gli occhi grigi incandescenti di odio e desiderio di sangue. Poi cadere lo stalliere, che giaceva privo di sensi sul fieno, e si voltò verso Sarah. Lei lo fissava, sconvolta, le labbra tremanti, il cuore in tumulto. Non sapeva se temerlo... o ringraziarlo. E lui… lui la trasmissione come un uomo che aveva appena perso se stesso. Sarah, tremando, si avvicinò al pianoforte. Thomas giaceva immobile sul fieno, il respiro debole ma vivo. Wolfe, invece, era ancora in piedi, le mani insanguinate, il petto che si alzava e abbassava in furia convulsa. Lei esitò un istante. Poi, guidata più da compassione che da ragione, tese la mano e sfiorò le sue dita sporche di sangue. — Milord... basta. Fermatevi... siete meglio di questo. Wolfe trasalì come colpito da una lama. Ritirò la mano di scatto, gli occhi grigi ardenti di rabbia e qualcos'altro di più oscuro. — Non toccatemi! — ringhiò, la voce velenosa. — Voi… voi siete la rovina di tutto! Sarah fece un passo indietro, sconvolta. —Io? —Sì! — urlò lui, avanzando, le parole come frustate. — Con i vostri sorrisi… con le vostre moine da fanciulla ingenua… avete incantato tutti! Persino il mio cane! Persino la mia casa! Sarah scosse il capo, gli occhi lucidi. — Non ho fatto nulla, milord… io non… — SILENZIO! — la interruppe, il volto contratto. - Ma non io, signorina Wolton! Non io! — Si piegò su di lei, il respiro rovente. — I vostri trucchi per entrare nel mio letto non funzioneranno! Non sarò mai una delle tue conquiste! Quelle parole la trafissero come lame. Il cuore le si strinse, la gola si chiuse. Non era solo rabbia, quella. Era paura. Paura di sé stesso. Sarah lo guarda, gli occhi verdi scintillanti di lacrime e orgoglio. — Non desidero il vostro letto, milord. — La sua voce tremava, ma ogni sillaba era ferma. — Desidero solo... sopravvivere a questo castello e alla vostra crudeltà. Il silenzio cadde, pesante come pietra. Wolfe restò immobile, le mani ancora sporche di sangue, lo sguardo diviso tra collera e una smania che non voleva ammettere. Shadow, silenzioso, era apparso all'ingresso del fienile, fissando entrambi come un giudice muto. Sarah sentì il cuore spezzarsi sotto il peso di quelle parole. Il volto di Wolfe, scuro e implacabile, le si fissò nella mente come un marchio. Il fieno attorno, l'odore ferroso del sangue, Thomas svenuto… tutto si mescolava in un incubo da cui voleva soltanto scappare. — Non… non posso più… — mormorò, la voce spezzata. Si voltò di colpo, le gonne che frusciarono nel fienile, e corse via. Non si fermò, non osò guardare indietro. Le lacrime le offuscavano la vista, ma non rallentò: voleva solo mettere quanta più distanza possibile tra sé e quell'uomo, tra sé e quell'oscurità che la divorava. Attraversò i corridoi del maniero, cieca alle voci dei servitori che si giravano a guardarla. Sentiva il loro brusio crescere, il pettegolezzo pronto a infiammarsi ancora. Ma nulla importava. Solo fuggire. Raggiunse la sua stanza e richiuse la porta alle sue spalle con un tonfo. Vi si appoggiò contro, ansimante, le lacrime che scivolavano libere sulle guance. — Perché… — sussurrò, serrando i pugni. — Perché mi tratti così? Ma nessuna venne risposta. Solo il rombo lontano del vento che ululava attorno al maniero. Sarah si lasciò cadere sul letto, afferrando il cuscino per soffocare i singhiozzi. Era troppo. Troppo dolore, troppa umiliazione. E, peggio di tutto, quell'attrazione proibita che, nonostante tutto, non riusciva a cancellare dal cuore. Nella solitudine della sua camera, giurò a se stessa di resistere. Di non lasciargli più il potere di ferirla. Ma sapeva che era una promessa fragile, perché l'ombra del conte Wolfe non l'avrebbe mai abbandonata. Wolfe restò immobile, il petto ancora sollevato da respiri furiosi, lo sguardo perso sul sangue che gli macchiava le mani. Stringeva i pugni, ma la verità era che non sapeva se la sua rabbia fosse più diretta allo stalliere… oa sé stesso. Fu allora che una voce calma, ferma come una lama invisibile, ruppe l'aria tesa: — Milord. Wolfe sollevò lo sguardo. Timothy era lì, nell'ombra, composto come sempre. Ma i suoi occhi — scuri, intelligenti — non tradivano obbedienza cieca. — Cosa guardate, Timothy? — ringhiò il conte, voltandosi bruscamente verso di lui. — Tornate alle vostre faccende. Il maggiordomo non si mosse. — Da anni servo questa casa, milord. Ho visto molto… più di quanto crediate. Cadde un silenzio pesante. Wolfe serrò la mascella, ma non lo interruppe. — Miss Wolton non è la causa dei vostri demoni, né della vostra furia. — La voce di Timothy si abbassò, quasi a un sussurro. — Lo sapete. È l'ombra del passato che vi divora… quella sorella che non avete mai smesso di rimpiangere… e quell'inferno di colpa che non lasciare andare. Gli occhi grigi del conte si gelarono. — State attento, Timothy… — No, milord. — Lo fermò lui, con insolita fermezza. — Non sono io a dover stare attento. È lei. Quella ragazza... quella giovane governante che avete trascinato nel vostro mondo di oscurità. Il suo posto è servire questa casa. Non sanguinare per i vostri fantasmi. Wolfe trasalì appena. Ma Timothy non disse altro. Fece un inchino perfetto e si allontanò, lasciando il conte solo con le sue mani sporche di sangue e la coscienza più pesante che mai. La stessa notte, Timothy bussò alla porta della stanza di Sarah. Lei, con gli occhi arrossati e il viso segnato dalle lacrime, esitò prima di aprire. — Signor Timothy…? Il maggiordomo abbassò lo sguardo su di lei con una cortesia insolita. — Miss Wolton... è tempo che sapere la verità. Su di lui. Sul conte Wolfe. Sarah fissava Timothy, sorpresa, ancora in piedi con la porta socchiusa alle sue spalle. Il maggiordomo entrò piano, chiudendola con un gesto lento, e si fermò davanti al camino spento della stanza. Il suo volto, sempre impenetrabile, era segnato da un'ombra rara: malinconia. — Miss Wolton… — iniziò, con la voce bassa, come se temesse che i muri stessi del maniero arrivarono ad ascoltare. — Nessuno osa parlarne qui dentro. Non i servitori, non i parenti lontani che ancora osano varcare queste soglie. Ma voi… voi dovete sapere. Sarah si irrigidì. — Sapere... cosa? Timothy ispira profondamente. — Il conte Wolfe non è nato così. Non era quell'uomo collerico, cupo e spietato che conoscete. Un tempo... era diverso. Persino capace di sorridere. Sarah rimase senza parole. Non riuscivamo a immaginarselo. — Ma anni fa, — continuò il maggiordomo, lo sguardo perso in un ricordo lontano, — sua sorella, lady Eleanor, la creatura che più amava al mondo… morì. Una caduta, improvvisa, assurda. Alcuni dicono un incidente. Altri... un gesto disperato. Sarah trattenne il respiro. — Un gesto… disperato? Timothy annuì lentamente. — Lady Eleanor era promessa a un uomo che non amava. Una famiglia potente aveva deciso il suo destino. E il conte, che l'adorava, non poté impedirlo. Era giovane, inesperto… e impotente davanti a quell'accordo. La sera prima delle nozze, Eleanor si precipitò dal balcone della sua camera. Il vaso che avete infranto... era suo. L'ultimo dono che lei gli fece. Sarah sbiancò, portandosi una mano alle labbra. — Dio mio... Il maggiordomo scosse il capo. — Da allora, il conte non ha mai perdonato nessuno. Né se stesso, né il mondo. La sua collera, la sua crudeltà… sono le catene che lo tengono vivo. Crede che amare significhi distruggere. Crede che nulla resti, se non il dolore. Sarah chiude gli occhi, il cuore in tumulto. All'improvviso, ogni parola dura, ogni sguardo glaciale di Wolfe, ogni gesto violento, prendevano una nuova forma. Non lo giustificavano, no. Ma lo spiegavano. Timothy la fissò con serietà. — Per questo vi metto in guardia, signorina Wolton. Non lasciatevi inghiottire da lui. O vi trascinerà nello stesso abisso. Sarah abbassò lo sguardo, ma le lacrime già le velavano gli occhi. — È già troppo tardi… — sussurrò senza volerlo. Il maggiordomo la osservò un istante, poi chinò il capo in un inchino. — Allora, abbiate la forza che lui non ha avuto. Non ripetere la tragedia di Lady Eleanor. E lasciò la stanza, svanendo nel corridoio come un'ombra. Sarah fu svegliata da un boato, seguito da imprecazioni che parvero scuotere le mura stesse. Si alzò di scatto, il cuore in gola, ancora in camicia da notte. Il corridoio era deserto: i servitori, come topi davanti a un incendio, si erano dileguati. Scese le scale quasi inciampando, guidata dalle urla. Nel grande salone, il conte Wolfe afferrò una sedia e la scaravento  contro il muro. Il legno esplose in mille schegge. Sarah si immobilizzò, il fiato corto. —Milord…? Lui si voltò. Il volto era un lampo di furia, gli occhi grigi incendiati. — Dov'è Timothy?! — tuonò. Sarah sussultò, stringendosi le braccia al petto. — Io… non lo so… — sussurrò, quasi incapace di parlare. Wolfe avanzò verso di lei come una tempesta, e lei indietreggiò fino a urtare la parete. — Che diavolo state a fare qui allora?! — ruggì, e la sua mano la afferrò per un braccio, stringendo forte. — Trovatelo! Ora! — Ma… cosa sta succedendo? — osò chiedere, la voce tremante. Il respiro del conte le bruciò addosso, feroce, velenoso. — Signorina Wolton… sapete cos'è un ordine? — sibilò. E la scosse, con violenza sufficiente a strapparle un gemito. — Trova Timothy. Subito! Gli occhi di Sarah si velarono di paura. Annui freneticamente e si divincolò, fuggendo via tra i corridoi bui. Il cuore le batteva all'impazzata, i piedi nudi che battevano contro le ultime fredde. Lo trovò infine, al ritorno dalla notte: Timothy avanzava nel cortile con il mantello fradicio di pioggia, il volto tirato.– Signorina Wolton? — disse sorpreso, vedendola così sconvolta. — Cosa succede? Lei inspirò a fondo, ancora scossa. — Il conte vi cerca… è… è fuori di sé. Ha rotto tutto… mi ha detto di trovarvi… Timothy serrò la mascella e posò una mano calma sul braccio della ragazza. — Non temere. È la giumenta, la sua preferita. Sta partorendo, ma qualcosa non va. Ho obbligatorio a chiamare il veterinario. Nel frattempo, lui è… — abbassò la voce, come se il vento potesse ascoltarlo — lui è intrattabile. Sarah sgranò gli occhi. — La giumenta...? Tutto questo… per lei? Timothy annuì. — Non è solo un cavallo, signorina Wolton. È l'ultima eredità di sua sorella Eleonora. Il suo sangue, il suo ricordo. Se la perde... teme di perdere di nuova lei. Sarah si strinse nel mantello che si era gettata addosso all'improvviso. Capiva, ora, l'urlo del conte, la furia che distruggeva tutto intorno. Non era rabbia soltanto: era dolore, panico, terrore di rivivere la stessa tragedia. Eppure, mentre Timothy si allontanava verso le scuderie, Sarah rimase un istante immobile sotto la pioggia battente, il cuore che le doleva. Cosa dovevamo fare? Seguirlo e affrontare quella tempesta… o restare al sicuro, al riparo dalla furia di Wolfe? Le scuderie erano immerse in una penombra agitata dai lampi. L'odore pungente di paglia bagnata e sudore animale saturava l'aria, mescolato a quello acro dell'alcol. La giumenta, distesa su un fianco, scalciava debolmente, il respiro irregolare. Ogni nitrito era un colpo al cuore. Il veterinario, piegato accanto a lei, lottava in silenzio con mani febbrili, tentando di salvare due vite in bilico. E lì, immobile come una statua di pietra, stava lui. Nickolas Wolfe. Un muro di ghiaccio. I capelli neri, umidi di pioggia e disordinati, cadevano sulla fronte. La camicia nera, aperta a metà, lasciava intravedere la pelle tesa e il respiro trattato a forza. In una mano stringeva mezza bottiglia di whisky ormai vuota, l'altra serrata in un pugno, le nocche bianche. Gli occhi grigi, fissi sull'animale, non tradivano nulla — eppure tutto in lui urlava. Sarah, bagnata fino alle ossa, varcò la soglia con passo incerto. L'acqua le colava lungo i capelli ramati e la camicia da notte le aderiva al corpo, ma non se ne curò. Video solo lui. Solo quell'uomo che pareva consumarsi in silenzio. Fece un passo avanti, esitante, e la sua voce, fievole ma ferma, ruppe il fragore della pioggia che batteva sulle travi del tetto: — Milord... Wolfe si voltò di scatto, e per un attimo gli occhi grigi lampeggiarono di pura collera. — Vi avevo detto di risparmiare! — ringhiò, la voce rauca, quasi spezzata. — Non siete voluta qui. Sarah serrò le mani lungo i fianchi, tremando ma determinata. — Eppure… sono qui. Il silenzio che seguì fu carico come un temporale sospeso. Un nitrito straziante della giumenta interruppe quell'attimo. Wolfe trasalì, e il bicchiere di bottiglia gli scivolò dalle dita, infrangendosi sul pavimento di pietra con un tonfo secco. Sarah lo lascia. Non l'arrogante padrone,non il despota del maniero, ma un uomo sull'orlo del baratro. Un uomo che temeva di perdere di nuovo. Fece un altro passo, più vicino. — Milord... non dovete affrontarlo da solo. Wolfe la fissò come se le sue parole fossero un'eresia. Le labbra si piegarono in un ghigno amaro, velenoso. — Non avete idea… di cosa io devo affrontare. — Allora… — disse Sarah, con voce che tremava, ma che non volle spegnere — lasciatemi almeno tentare. Il lampo che illuminò la stalla mostrerà il volto di Wolfe rigato da un dolore che mai avrebbe ammesso. Il veterinario si voltò, le mani sudate, il volto contratto da una decisione che pesava come una condanna. — Conte Wolfe… — balbettò, la voce greve — non potrò salvarli entrambi. La giumenta è in travaglio complicato… il puledro è in posizione anomala. Posso tentare, ma insisto, rischio di perdere la madre. Devo scegliere. Un silenzio gelido calò fra la paglia. Il nitrito della giumenta era un pianto spezzato. La pioggia tamburellava sul tetto come una sentenza. Sarah sussultò e portò una mano alla bocca, il cuore come un tamburo nei suoi orecchi. Nickolas, che fino a quel momento era rimasto un blocco di pietra immobile, sbiancò in volto come se avesse visto la morte materializzarsi davanti a sé. Per un attimo la sua maschera tremò, lasciando intravedere un dolore antico, una ferita che ancora sanguinava. Poi, con voce tagliente come una lama, pronunciò la decisione che gelò l'aria: — Bene. Uccidete il puledro. La frase cadde come pietra. Sarah strinse le mani, i polsi bianchi. - NO! —urlò, la voce spezzata ma feroce. — No, non potete… non potete togliergli la vita! Wolfe si voltò come un animale ferito, e la trafisse con lo sguardo, gelido e implacabile. — La vostra opinione non mi interessa, signorina Wolton. — sibilò, ogni parola un colpo. — Ho deciso. La scelta è fatta. Il veterinario, intimorito dallo sguardo del conte, esitò. Ma Sarah non poteva stare a guardare; qualcosa dentro di lei si ribellò con la stessa forza con cui aveva, poche ore prima, strappato via il fieno e le urla dal fienile. Si chinò, ignorando la paura, e si fece avanti tra la gente eccetto il conte e il medico. L'acqua le bagnava i capelli, la camicia da notte le si attaccava alla pelle, ma lei non sentiva né freddo né vergogna: vedeva solo quella piccola vita che cercava di farsi strada nel mondo. — Non potete farlo. — disse a voce bassa, rivolta al veterinario e poi, con ancora più forza, al conte — Non ora. Non posso tentare. Datemi una possibilità. Il veterinario cercò di fermarla con la mano. — Signorina, la situazione è critica — sussurrò — ogni manovra è rischiosa. Sarah non ascoltò. Con mani che tremavano ma decise, si avvicinò alla giumenta, che la trasmissione con occhi impauriti e grandi come piatti. Accarezzò il fianco sudato dell'animale, parlò piano, parole di conforto che sembravano ammorbidirle i muscoli. Poi si raccolse, si fece coraggio e, con delicatezza, aiutò il veterinario: mano nell'acqua calda, posizioni, trazioni misurate.Il tempo si ridusse a pochi attimi eterni: il respiro di tutti, il ritmo del cuore nella gola, il sudore che scendeva lungo la nuca di Sarah. Shadow stava accoccolato vicino a loro, ridendo del pericolo con il solo corpo teso e vigile; ogni tanto alzava la testa per guardare Wolfe come per dirgli: guarda, lei non molla. Wolfe restò a guardare, la mascella serrata, la bottiglia vuota abbandonata in terra. La sua furia, in quel momento, era un dolore cieco che tentava di trasformarsi in ordine. Sentiva l'onda di panico che gli salì alla gola — la stessa marea che lo aveva travolto anni prima — e non sapeva come piegarla. Sarah, china sul ventre della giumenta, era l'incarnazione di quella decisione impossibile: vita contro ricordo. All'improvviso un piccolo suono, un debole gemito bagnato, e qualcosa scivolò, umido e perfetto, fuori dall'ombra del corpo materno. Il puledro comparve, fragile e lucido, e subito il veterinario lo avvolse in stracci caldi, stimolandolo. Sarah, con le mani ancora insanguinate della fatica e della paglia, raccolse quell'essere minuscolo e lo portò al petto della madre. La giumenta emette un suono sommesso, poi un altro, e iniziò a leccare il piccolo. Un singhiozzo — non di dolore, ma di sollievo — scoppiò improvviso in gola a Sarah; intorno a lei scoppiò un mormorio, prima incredulo, poi di gratitudine. Il veterinario alzò lo sguardo, gli occhi lucidi: «Ce l'abbiamo fatta», mormorò. Wolfe rimase immobile, come trafitto da una lama che non feriva il corpo ma la coscienza. Un tremito gli scosse le mani; la furia che l'aveva animato poc'anzi si sciolse in qualcosa di più sottile — un vuoto, una resa. Per la prima volta, e forse l'ultima, non trovò parole velenose. Guardò la scena: la giumenta che leccava il puledro, il levriero accucciato, Sarah che lo teneva con delicatezza incredula. Poi, con voce stranita, quasi non sua: — Siete insopportabile. — disse soltanto. Sarah, che non aveva più forze per ribattere, alzò il capo; gli occhi verdi le brillarono di lacrime non asciutte. In quel momento Wolfe si accostò, senza fare rumore. La sua mano, ancora segnata dall'ira e dal sangue, cercò la sua e la sfiorò per un istante — non per possesso, non per dominio, ma come per verificare che fosse reale, che quella vita non fosse un sogno. Shadow sospirò, come se avesse approvato. Il modo in cui il conte osservava la scena era tutto meno che trionfale: un uomo piegato davanti a quel che più temeva perdere. La luce fredda del mattino filtrava dalle finestre della stalla, disegnando ombre lunghe e tremolanti. Sarah, ancora fradicia, con il respiro corto, poggiò il puledro accanto alla madre. Si permetta un sorriso stanco e incredulo — un gesto minuscolo e umano che squarciò per un attimo la coppa armatura del maniero. Non tutto era risolto, nulla era diventato semplice. Ma quel parto, crudele e miracoloso, aveva scavato una piccola ferita anche nel cuore di Wolfe: una crepa da cui, forse, qualcosa di diverso sarebbe potuto filtrare.E Sarah, avvolta dall'odore di fieno e di vita nuova, si rese conto che, per la prima volta, non era più solo la preda — era anche colei che aveva salvato una vita, e con essa aveva guadagnato, senza volere, un rispetto ostinato. Le ginocchia di Sarah cedettero all'improvviso, come se tutta la forza che fino a quel momento l'aveva sostenuta fosse svanita in un soffio. Si cadere sul fieno, il corpo scosso dai brividi. Le lacrime, che aveva trattato con orgoglio durante la prova, finalmente esplosero. Piangeva senza più pudore, la camicia da notte fradicia incollata alla pelle, sporca di sangue e paglia, i capelli ramati scuri e pesanti d'acqua. Si sentiva vuota, eppure spezzata. E lì, tra i nitriti ormai quieti della giumenta e il respiro tremolante del puledro, il mondo intero le parve crollare addosso. Non si accorse nemmeno della sua presenza fino a che non sentì un'ombra incombere su di lei. Nickolas Wolfe la fissava, immobile. I suoi occhi grigi, ancora roventi di tensione, scivolarono sul corpo fragile e stremato della ragazza. Per un istante parve incerto, come se un'invisibile barriera lo trattenesse. Poi, senza una parola, fece un passo avanti. Si chinò e la sollevò con un gesto deciso, quasi brusco, ma che non lasciava spazio al rifiuto. Sarah sobbalzò, cercò di opporsi, ma il corpo non rispondeva più: si ritrovò stretta contro il suo petto, sentendo il calore bruciante che trapelava dalla sua camicia nera, ancora umida di pioggia. Il suo profumo — whisky, pioggia e tormento — le invade i sensi. Non disse nulla. Non spiegò nulla. La portò via così, tra i corridoi silenziosi del maniero, mentre il rumore dei passi risuonava sulle lastre fredde. Chiunque avesse osato spiare si sarebbe pietrificato davanti alla vista: il Conte in persona che stringeva tra le braccia la sua governante, come fosse un bene prezioso o una condanna. Sarah, stremata, appoggiò il volto al suo petto, senza trovare la forza di ribellarsi. I singhiozzi si placarono poco a poco, sostituiti da un torpore che la invadeva. E infine si accorse: non la stava conducendo verso la sua camera. La porta che si aprì era quella della stanza del Conte. Un fuoco acceso ardeva nel camino, gettando ombre rosse sulle pareti. Wolfe la posò con lentezza sul letto ampio, le lenzuola scure che parevano un abisso. Si raddrizzò, lo sguardo indomabile, il respiro ancora teso. — Non potevate restare lì, — mormorò infine, la voce roca, quasi strozzata. — Non in quello stato. Le parole suonarono come un'ammissione impossibile: dietro la crudeltà, c'era un'eco di cura. Sarah lo fissò, smarrita, il cuore che batteva furiosamente nel petto. Non sapeva se temere di più la sua furia… o quella strana tenerezza che, per un istante, gli aveva incrinato la maschera. Sarah sussultò, il respiro mozzato in gola. Ancora scossa, tremava come una foglia al vento, incapace persino di sostenere lo sguardo del conte. — Dovete cambiarvi, signorina Wolton, — disse lui,la voce dura ma incrinata da una nota quasi impercettibile di inquietudine. — Non potete rimanere così. Siete tutta bagnata. Lei scosse il capo con un filo di voce, le labbra pallide: — Non… non ho più le forze, milord… Nickolas la fissò, le pupille grigie ardenti di un fastidio che nascondeva male l'ombra di una preoccupazione. Il tremito che la scuoteva lo irritava più della sua stessa ostinazione. Serrò la mascella, poi con gesto deciso aprì l'armadio e ne trasse una camicia da notte di lino, bianca e semplice, che sembrò brillare al bagliore delle fiamme. Tornò accanto a lei, e senza una parola la afferrò per il braccio, tirandola su di peso. Sarah soffocò un gemito, ritrovandosi intrappolata nello spazio angusto tra lui e il letto. Il corpo del conte era a un soffio dal suo, la sua statura imponente la sovrastava, e l'odore inebriante di whisky e pioggia la travolse. Il cuore le batteva all'impazzata. Poi le mani di Wolfe scivolarono, lente, decise, fino alle spalline della sua camicia fradicia. Fu allora che Sarah comprese. I suoi occhi verdi si spalancarono. — Lupo! — esclamò, la voce rotta dal panico e dall'incredulità. Lui rimase immobile un istante, ma non arretrò. Le sue dita indugiarono sulla stoffa bagnata, come se quella resistenza fosse un'ulteriore provocazione. Il ghigno sottile che incurvò le sue labbra aveva qualcosa di crudele, ma anche di… pericolosamente sensuale. — Non fate la sciocca, — sussurrò, basso, velenoso, con un respiro caldo che le sfiorò la guancia. — Morireste di freddo prima dell'alba. E io non tollero debolezze sotto il mio tetto. Il silenzio si caricò di una tensione quasi insopportabile. Sarah tremava, ma non sapeva più se per il gelo o per la vicinanza di quell'uomo che le divorava l'anima. Sarah trattenne il fiato quando le dita del conte afferrarono la stoffa gelida della sua camicia. Con un gesto lento ma inesorabile, Wolfe la tirò giù dalla spalla, scoprendo la pelle pallida e fremente sotto la luce del fuoco. — Wolfe… vi proibisco… — balbettò, la voce incrinata, mentre le mani tremanti cercavano di ricomporsi. Ma lui la bloccò con una forza che non ammetteva replica. Il volto a un soffio dal suo, lo sguardo grigio che le trapassava l'anima. — Basta sciocchezze, — ringhiò sottovoce, le labbra quasi a sfiorarle. — Non vi lascerò marcire di febbre come una stupida serva. Non sotto il mio tetto. Ogni parola era veleno e fuoco insieme. Le sue mani continuarono, brusche, decise, a liberarla dalla stoffa zuppa. Sarah tremava, il cuore martellava all'impazzata, incapace di capire se fosse più forte l'umiliazione o lo sconcerto... o quella scintilla oscura che lottava contro la paura. Wolfe gettò via la camicia bagnata con un gesto secco, e subito le porse — no, le imporre — la camicia di lino bianca che aveva preso dal suo armadio. Non attesa che Sarah si muovesse: gliela infilò lui stesso, con gesti rapidi, rabbiosi, come se ogni bottone fosse una battaglia da vincere. Lei, sfinita e confusa,non riuscire a resistere. Gli occhi verdi, velati di lacrime e vergogna, incontrarono i suoi. Per un istante, il tempo si fermò. Wolfe restò immobile, le mani ancora sulle sue spalle, il respiro caldo che le incendiava il collo. Non era solo collera, quella che ardeva nei suoi occhi. Era qualcosa di più profondo, oscuro, proibito. Sarah lo capì in quell'istante, e il suo corpo si irrigidì. Se avesse varcato ancora un passo… non ci sarebbe più stato ritorno. Con un ringhio soffocato, irritato più con se stesso che con lei, Wolfe la sospinse con uno strattone deciso. Sarah, ancora troppo debole per reggersi in piedi, cadde all'indietro sul letto con un gemito strozzato. Il cuore le balzò in gola: per un istante fu certa che sarebbe accaduto l'inevitabile, che il Conte avrebbe oltrepassato ogni confine. Il fuoco del camino gettava bagliori rossi sulle pareti, la camicia di lino le ricadeva morbida addosso, rivelando più di quanto celasse. Sarah giaceva lì, vulnerabile, tremante, i capelli ramati sparsi sul cuscino come un'aureola di fiamme. Wolfe restò a guardarla un istante, le mani serrate ai fianchi, il respiro irregolare, la mascella contratta. La tensione nell'aria era racconto da mozzare il fiato. Poi, con un gesto brusco, si voltò di spalle. — Ora dormiente! — tuonò, la voce bassa, roca, più simile a un ordine che a una premura. Sarah rimase immobile, sconvolta, incapace di credere che dopo averla spogliata, cambiata e gettata sul suo stesso letto, lui… si stesse davvero fermando. Il Conte avanzò verso la finestra, spalancandola di scatto. L'aria gelida della notte e il profumo della pioggia invadevano la stanza. Wolfe si passò una mano tra i capelli neri, irritato, tormentato, come un predatore costretto a rinunciare alla preda. Sarah, rannicchiata sotto le lenzuola, lo osservava di nascosto. Non c'era nulla di tenero in quell'uomo: era furia, desiderio, oscurità… eppure l'aveva salvata. L'aveva messa nel suo letto. E lei, tremante, non capiva più se doveva odiarlo o temere quanto stava desiderando quell'uomo che avrebbe dovuto solo disprezzare. Sarah si rigiderà nel sonno, emettendo un piccolo sospiro. Il calore che la avvolgeva era inebriante, diverso da qualsiasi altra notte passata in quel maniero gelido. Un tepore confortante, quasi dolce, che la fece restare abbandonata a quell'abbraccio invisibile ancora per qualche istante. Ma qualcosa non tornava. La sua stanza non era mai stata così calda. E quella sensazione… quel peso vicino, quel respiro regolare e profondo che le sfiorava l'orecchio… non era frutto di un sogno. Aprì un occhio, ancora assonnata. Poi l'altro. E il sangue le gelò nelle vene. Accanto a lei, steso nel medesimo letto, c'era Nickolas Wolfe. Il suo corpo potente, vestito solo della camicia sbottonata e dei pantaloni scuri, le faceva da muro e rifugio al tempo stesso. Un braccio le cingeva la vita con un possesso istintivo, stringendola a sé. Il volto del conte era così vicino che poteva vedere ogni dettaglio: le ciglia scure,la mascella forte, la bocca dal taglio crudele persino nel sonno. Sarah trattenne un gemito strozzato, il cuore che martellava furiosamente. Era abbracciata al conte. Al suo padrone. Tentò di muoversi, piano, per liberarsi da quella presa. Ma l'abbraccio si fece più saldo, come se Wolfe, pur immerso nel sonno, avvertì il suo tentativo di fuga. Le dita lunghe e forti si serrarono sulla sua vita, costringendola a restare incastrata contro il suo petto caldo. Il respiro di lui era lento, profondo, e il suo odore — un misto di whisky, fumo e mascolinità selvaggia — la travolse. Sarah spalancò gli occhi verdi, sgomenta. Non sapevamo se piangere, urlare… o restare immobile, temendo di svegliarlo. Un pensiero la trafisse come una lama: se qualcuno li aveva visti così… E in quel preciso istante, Wolfe si mosse. Un respiro più profondo, un impercettibile mutamento del corpo. Poi gli occhi grigi si aprirono, torvi, lucidi, e la trovarono già lì. Immobiliare. A un soffio di distanza. Abbracciati nello stesso letto. Nick trasalì, gli occhi grigi che per un attimo tradirono smarrimento. Non ricordava di essersi coricato lì. Non ricordava di averla stretta a sé. Eppure il calore del suo corpo, il profumo sottile di lei che gli invadeva i sensi… erano reali. Troppo reali. Sarah, sconvolta, si dimenava tra le sue braccia, balbettando frasi spezzate. — Mi… milord… io… non so… non volevo… Ogni suo tentativo di scostarsi non faceva altro che peggiorare la situazione: il suo corpo morbido e caldo sfiorava il petto nudo di lui, muovendosi in modo involontariamente sensuale. Nick trattenne un gemito, il cuore che martellava come non accadeva da anni. Un lampo feroce attraversò i suoi occhi. — Cristo... ferma! — ordinò, la voce roca, tesa come una lama. Sarah gelò all'istante, gli occhi verdi spalancati per la paura e lo sconcerto. Il respiro irregolare di Wolfe le bruciava contro la guancia, troppo vicino, troppo intenso. Per un lungo istante restarono così: prigionieri l'uno dell'altro, il silenzio rotto solo dal crepitio del fuoco e dai loro respiri affannosi. Poi Nick si scostò appena, serrando la mascella. — Non muovetevi più, — mormorò, velenoso ma turbato. — Ogni vostro gesto non fa che… complicare le cose. Il suo sguardo la divorava, oscillando tra collera, desiderio e una vulnerabilità che raramente mostrava. Sarah, con il cuore in gola, comprese che bastava un respiro, un solo passo in più, e avrebbe oltrepassato il confine da cui non si torna indietro. Sarah rimase immobile, gli occhi verdi sbarrati, il respiro corto. Non riuscivamo a capacitarsi di trovarsi lì, tra le braccia del conte, sul suo letto. Ogni fibra del suo corpo gridava imbarazzo, vergogna, confusione. Wolfe la fissava, e un ghigno sottile incurvava le sue labbra. Ma nei suoi occhi grigi brillava un lampo contraddittorio: collera, sì… eppure anche qualcosa di più oscuro. — Io non so come ci siete riuscita, miss Wolton… — disse, con quella voce bassa, tagliente,che scivolava velenosa e ironica insieme. Lei lo lasciare, smarrita, senza comprendere. — Mi... milord? Nick abbassò il capo, le labbra a un soffio dalle sue, e finì la frase con un sussurro che bruciava come una lama: — …a entrare nel mio letto. Sarah sbiancò, poi arrossì violentemente, il cuore che le batteva come impazzito. Le labbra le tremavano, incapaci di formulare parole. — N-non… non sono stata io! — protestò infine, la voce incrinata. — Io… non so come… vi giuro… non avrei mai… Le parole si spegnevano in gola, sopraffatte dalla vicinanza proibita. Wolfe inclinò il capo di lato, osservandola come un cacciatore osserva la preda che si dibatte. — Davvero? — mormorò, velenoso. — Allora forse sono io, il sonnambulo… che va in giro a raccogliere governanti nel cuore della notte. Un lampo ironico brillò nei suoi occhi, ma sotto quell'ironia ribolliva qualcosa di pericolosamente autentico. Sarah deglutì, incatenata dal suo sguardo. E in quell'istante capì che Wolfe stava giocando con lei… ma stava anche combattendo con se stesso. Sarah deglutì a vuoto, il cuore che le batteva furiosamente contro il petto. La sua mente correva, cercando una via di fuga, un modo per spezzare quell'incantesimo velenoso in cui era intrappolata. Ma il corpo non le obbediva. Nickolas Wolfe, invece, non pensava a fuggire. I suoi occhi grigi la scrutavano avidi, fissi sui capelli ramati che si spargevano come fiamme sul cuscino, sul lino bianco che le scivolava dalle spalle, lasciando intravedere la curva delicata del seno. Era…bellissima. Troppo. Una tentazione che non aveva previsto, né desiderato, ma che ora lo stava divorando vivo. Sarah fece per ritrarsi, spingendosi con la schiena contro il letto, le mani tese come a difendersi. — Vi prego… lasciatemi… — balbettò, la voce incrinata, rossa di vergogna. Nick, con un lampo predatorio negli occhi, non le concesse scampo. — Non così in fretta… — mormorò, velenoso, e con un gesto deciso la bloccò, la sua mano forte che la tratteneva con facilità. La traccia a sé, annullando ogni distanza. Sarah sussultò, il respiro spezzato contro il petto di lui. Mai, mai erano stati così vicini. Mai aveva sentito il calore rovente di quell'uomo bruciarle la pelle, né il peso inconfondibile del suo desiderio. I loro respiri si mescolarono, l'aria divenne densa, elettrica, quasi insopportabile. Sarah era atterrita e incantata allo stesso tempo. Sentiva il suo corpo tradirla, tremare non solo per paura, ma per quella forza magnetica che Wolfe esercitava su di lei. E negli occhi del conte non c'era solo crudeltà. C'era brama. C'era tormento. Un fuoco oscuro che minacciava di divorarli entrambi. Nick la guarda ancora un istante, indeciso se valicare quel confine proibito. Poi il dubbio si dissolve, travolto da un impulso più forte di lui. Le sue labbra piombano sulle sue. Non fu un bacio dolce. Fu un bacio rovente, autoritario, deciso. Un bacio che non chiedeva il permesso, ma lo fingeva. La mano del conte le serrava la nuca,costringendola a non potersi sottrarre, mentre l'altra la tratteneva per la vita, impedendole ogni fuga. Sarah gemette contro di lui, sorpresa, sconvolta… eppure incapace di reagire. Il suo corpo si tese, lottando tra paura e un fuoco nuovo che la stava bruciando dall'interno. Wolfe non le lasciò respiro, e quel bacio la travolse come una tempesta: arrogante, devastante, ma incredibilmente sensuale. Era il bacio di un uomo che pretendeva tutto. Che voleva strapparle non solo il corpo, ma l'anima stessa. Sarah tremava, sconvolta dalla violenza e dall'intensità di quel gesto. Sapeva che avrebbe dovuto respingerlo, gridare, ribellarsi. Ma invece… si ritrovò con il cuore che le batteva all'impazzata, il respiro mozzato, e le labbra che rispondevano, timide e incerte, ma reali. E in quell'istante capì: quel bacio l'avrebbe perseguitata per sempre. Sarah balzò indietro di scatto, come se si fosse svegliata da un incubo e insieme da un sogno proibito. Le guance ardevano di vergogna, il petto ansimava come se avesse corso per miglia. Nick si voltò lentamente verso la porta, il volto ancora scurissimo, la mascella serrata. Solo i suoi occhi, due lame d'acciaio, tradivano l'irritazione feroce di chi era stato interrotto in un momento che nessuno, mai, avrebbe dovuto osare disturbare. Timoty, impassibile, chinò appena il capo, fingendo di non vedere ciò che aveva appena visto. — Milord... volevo informarvi che la giumenta e il puledro stanno bene. Il silenzio che seguì fu tagliente come una lama. Sarah abbassò lo sguardo, stringendo le mani per non tremare. Non poteva affrontare lo sguardo del maggiordomo, né tantomeno quello del conte. Sentiva ancora sulle labbra il peso di quel bacio, il calore che la bruciava. Wolfe inspirò piano, una volta soltanto, e quando parlò la sua voce era di nuovo la maschera gelida del padrone di Blackmire: — Bene. — Una pausa. — Puoi andare, Timoty. Il maggiordomo annuì, si inchinò e chiuse la porta senza un rumore, lasciando però dietro di sé un'ombra che sembrava pesare nell'aria. Nick rimase immobile, le mani strette a pugno. Poi si voltò verso Sarah, ei suoi occhi incontrarono i suoi. Non c'era più fiamma, solo gelo. - Non illudetevi, signorina Wolton. — La voce era velenosa, come una frusta. — Quello che è accaduto… non significa nulla. Sarah sentì il cuore strapparsi in due. Nulla. Il bacio che l'aveva travolta, che l'aveva marchiata, che le aveva tolto il respiro… per lui non era niente. Un tremito le percorse le labbra, ma lei serrò la mascella. — Come desiderato, Milord. — riuscì a sussurrare, la voce ferma solo in apparenza. E, prima che le lacrime la tradissero, si voltò di scatto e fuggì dalla stanza, lasciandolo solo con la sua tempesta. Purtroppo, dietro Timoty, nascosta nell'ombra del corridoio, c'era una cameriera. Aveva visto. Non serviva molto: il volto acceso di Sarah, i capelli arruffati sul cuscino, il conte Wolfe troppo vicino, il silenzio carico di qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. E tanto bastava.La voce corse come un incendio tra le mura di Blackmire. Prima un sussurro, poi un mormorio, infine un coro sibilante. La governante era l'amante del conte. Non c'erano più dubbi. «Lo sapevo…» mormorava la cuoca, mentre affettava il pane con colpi secchi. «Una ragazzina di campagna… ed eccola qui, nel letto del padrone!» rideva velenosa la cameriera più anziana. «E Ombra? Il bastone? Non si muove mai da lei… dev'essere stregoneria, non c'è altra spiegazione!» Aggiungeva un'altra, con gli occhi spalancati dall'invidia. Ogni parola era una lama che trafiggeva la fragile reputazione di Sarah. Lei, che non aveva cercato nulla, che ancora tremava al ricordo di quel bacio rubato, si trovò schiacciata dal peso di uno scandalo che non aveva scelto. E quando entrava in una stanza, i bisbigli si facevano più fitti. Quando passava nel corridoio, le spalle di chi parlava si irrigidivano. Eppure nessuno smetteva: tutti erano pronti a giurare di aver visto, di aver udito, di sapere. Wolfe Taceva. Non smentiva, non confermava. La sua ombra autoritaria si stendeva su ogni angolo del maniero, e questo silenzio, più che difenderla, la condannava. Sarah cominciò a domandarsi se quella non fosse la sua rovina definitiva. Sarah, con il cuore in tumulto, salì le scale che conducevano allo studio del conte. I pettegolezzi ormai erano insopportabili: ovunque si voltasse, occhi malevoli, sorrisi velenosi, sussurri che la inseguivano come ombre. Non poteva più fingere di ignorarli. Solo lui poteva spegnerli. Solo Wolfe, con una parola, avrebbe potuto far tacere tutti. Spinse la porta senza bussare. Il conte era alla scrivania, il volto chino su un bicchiere di whisky che non aveva ancora toccato. Alzò lo sguardo con un lampo glaciale quando la vide entrare. — Milord… — esordì Sarah, la voce tesa, — dovete dire la verità. Dovete smentire quelle menzogne. Dovete dire a tutti che io non sono... che io non sono la vostra... amante. Il silenzio che seguì fu pesante, quasi irreale. Poi, lentamente, Nickolas Wolfe si alzò in piedi. — Smentire? — mormorò, con un ghigno che non aveva nulla divertito. — Ah… e perché mai dovrei? Sarah sbarra gli occhi. — Perché è la verità! Perché la mia reputazione è in gioco! Wolfe si avvicinò a grandi passi, i suoi occhi grigi che la trapassavano come lame. — La vostra reputazione… — ripeté, velenoso. — Non è piuttosto questo ciò che volevate, signorina Wolton? — Vieni... osate?! — balbettò lei, tremando. — Oh, ma oserei eccome. — La sua voce era un sibilo di collera trattenuta. — Vi siete insinuata in questo maniero con l'aria innocente, con quei vostri sguardi verdi che fingono ingenuità. E ora… tutti parlano di voi. Tutti. E ditemi… non era questo il vostro piano? Far credere che siete la favorita del conte? Farvi temere e rispettare perché sareste la donna che ha incatenato Wolfe? Sarah sbiancò, ferita più dalle sue parole che da mille urla. — Non è vero! — gridò, con una disperazione che le incrinò la voce.— Io non ho mai voluto… mai pensato di— — Basta! — tuonò lui, afferrandola per un polso e trascinandola a sé, così vicino che poteva sentire il suo respiro caldo e feroce sul viso. — Non fingete con me! Non truffarmi! Sarah lo fissò con gli occhi pieni di lacrime e rabbia. — Siete crudele, Milord. Crudele e cieco. Se davvero credete che io possa aver manovrato tutto questo… allora non conoscete niente. Né di me… né di voi stesso. Wolfe le urlò addosso, il volto a un palmo dal suo, gli occhi grigi incandescenti come metallo incandescente. — E come potrei smentire una cosa… che è vera? — la voce era bassa, ma carica di veleno. — Voi siete stata nel mio letto! E se non fosse entrato Timoty sareste stata mia, lì… e vi sarebbe piaciuto! Quelle parole caddero come un colpo di frusta. Sarah sbiancò, poi il sangue le salì alle guance. Le labbra tremarono un istante, poi la sua mano scattò da sola. Schiaffo! Il suono fu netto, nella stanza muta. Wolfe si bloccò, la testa leggermente voltata per il colpo. Lentamente si voltò verso di lei, i capelli neri che gli cadevano sugli occhi. — Come osate parlarmi così? — urlò Sarah, la voce finalmente libera, furiosa, la gola che le bruciava. — Io non sono una delle vostre… puttane! Per un istante, nel silenzio che seguì, si sentirono solo i respiri dei due, corti e violenti. Wolfe si raddrizzò, portandosi una mano alla mascella. Lì, dove il colpo era caduto, la pelle era arrossata. Il conte non disse nulla subito. Non urlò, non la strattonò. Si limitò a guardarla, uno sguardo che non era più solo rabbia, ma qualcos'altro: sorpresa, ferita, una punta di rispetto rabbioso che non voleva ammettere. Sarah tremava, il cuore che le martellava nel petto, la mano che ancora bruciava per lo schiaffo. Aveva paura. Ma non si pentiva. Wolfe inspirò piano, la mascella serrata come pietra. — Uscite. — disse infine, con voce bassa, quasi cavernosa. — Uscite dalla mia vista, subito. Sarah lo fissò ancora un attimo, poi voltò le spalle e lasciò la stanza, il passo che le vacillava ma la testa alta. Dietro di lei, Wolfe restò immobile, le dita che stringevano la scrivania fino a farsi sbiancare le nocche. Si passò la mano sul volto, il respiro corto, come se fosse lui, stavolta, ad aver ricevuto un colpo allo stomaco. Lo studio era silenzioso, ma dentro Wolfe imperversava una tempesta. Ancora sentiva sulla pelle il bruciore dello schiaffo, il calore improvviso di quella mano fragile che aveva osato colpirlo. Nessuno, mai, aveva osato tanto. Nessuno, tranne lei. Si lasciò cadere sulla poltrona, un braccio abbandonato sullo schienale, l'altro stretto attorno al bicchiere di whisky che, tremando appena, non portò alle labbra. La rivide. Gli occhi verdi che ardevano come fiamme contro di lui. Il corpo minuto che non aveva esitato a sfidarlo, a gridargli in faccia ciò che nessuno aveva mai osato dire. Le parole che ancora gli scavavano dentro come lame: “Non sono una delle vostre puttane”. Nick serrò le palpebre,un gemito basso che gli sfuggì dalle labbra. Era abituato all'odio, alle maledizioni, al terrore che suscitava nei suoi servi e nelle sue amanti occasionali. Ma lei... lei non lo odiava soltanto. Lei lo sfidava. E quella sfida lo consumava. Si accorse di desiderarla. Non soltanto il suo corpo, ma la sua ribellione, la forza che si nascondeva sotto quell'apparenza fragile. E per la prima volta dopo anni, il conte Nickolas Wolfe sentì il morso del senso di colpa. Perché aveva gettato veleno su una ragazza che non meritava la sua crudeltà. Perché l'aveva umiliata davanti al maniero intero. Perché… aveva quasi voluto spezzarla. Eppure, nel silenzio dello studio, il suo cuore batte più forte al ricordo del suo profumo, del calore delle sue labbra sotto le sue, del tremito che aveva percepito nel suo corpo. Il desiderio era una catena, e lui stesso si scopriva prigioniero. Con un ringhio improvviso, Wolfe scaraventò il bicchiere contro il muro, il cristallo che si frantumò in mille pezzi. Ma non servì a nulla. Sarah Wolton era già dentro di lui. Sarah affondò il viso nella morbida criniera della giumenta, ispirando quell'odore caldo di fieno e vita nuova. Il piccolo puledro si strinse a sua madre, ancora incerto sulle zampe sottili, ma vivo, fragile e fiero. — Sono contenta che vi siete salvati entrambi… — mormorò, accarezzando piano il dorso dell'animale, quasi parlando a sé stessa più che a loro. — E merito vostro. La voce profonda e dura del conte la trafisse alle spalle. Sarah sussultò, il cuore che sobbalzò nel petto. Non lo aveva sentito entrare. Non volevo sentirlo. Seriò le labbra, non girandosi. Il suo silenzio era la sua unica arma. Wolfe avanzò di qualche passo, le suole che schiacciavano la paglia con un rumore sordo. L'ombra della sua figura si stese accanto a lei. - Vi ostinate a ignorarmi, signorina Wolton? — la sua voce era velenosa, ma velata da qualcosa di più sottile, quasi una ferita malcelata. — Dopo che avete osato colpirmi? Sarah chiuse gli occhi un istante, le dita ancora affondate nella criniera della giumenta. Non rispose. Nick fece un mezzo ghigno, ma era amaro, non divertito. — Curioso. Vi temiamo tutti in questo maniero… dicono che avete ammaliato persino Shadow. Eppure, siete l'unica che osa sfidarmi. L'unica che mi ignora. Il silenzio di lei bruciava più di mille insulti. Wolfe inspirò piano, e il suo sguardo scivolò sul profilo delicato della giovane governante, sui capelli ramati che brillavano alla luce delle lampade a olio. — Non durerà, Sarah. — mormorò, quasi un sussurro, basso e ruvido. — Un giorno smetterete di resistermi. E sarà allora… che sarete perduta. Sarah non si mosse. Continuò ad accarezzare la giumenta, come se il conte non fosse nemmeno lì. Il respiro dell'animale era caldo, rassicurante, e lei vi si aggrappò con tutte le forze per non voltarsi verso di lui. Wolfe, dietro di lei, attese. Era abituato a urla, piante, suppliche. Era abituato a piegare chiunque col solo peso della sua voce. Ma quella ragazza... no.Lei sceglieva il silenzio. La mascella gli si serrò. - Non vi illudete che la vostra ostinazione vi renda forte, signorina Wolton. — disse con un tono più basso, quasi ringhioso. — È solo arroganza. E l'arroganza, prima o poi, si paga. Nessuna risposta. Sarah continuava a fissare il puledro che, curioso, le strofinava il muso contro il palmo. Un sorriso lieve, dolce, le sfuggì dalle labbra, spontaneo, autentico. Quel sorriso, rivolto non a lui ma a un cavallo, fu per Nickolas Wolfe una lama conficcata dritta nel petto. Perché non lo guardava, non gli concedeva nulla, eppure lo stava vincendo. Fece un passo avanti, come per obbligarla a reagire, ma si bloccò. La sua mano si era mossa a mezz'aria, pronta a stringere il braccio esile di lei… eppure non lo fece. Rimase sospesa, tremante, prima di abbassarsi lentamente. Una lampada irritante gli attraversò gli occhi grigi. Non era lui, Wolfe, a vacillare. Non poteva esserlo. Eppure… accadeva. — Godetevi questa vittoria, signorina Wolton. — sibilò, con un filo di veleno nella voce. — Non durerà. Si voltò bruscamente e uscì dalla stalla, lasciando dietro di sé l'odore pungente di whisky e tempesta repressa. Sarah rimase sola, il cuore in tumulto. Non aveva detto una parola. Non aveva alzato la voce, né opposto resistenza. Eppure… lo aveva piegato. Il giorno seguente, l'atmosfera a Blackmire Manor era più tesa che mai. Nessuno parlava a voce alta, ma nei corridoi, nelle cucine, persino nei sotterranei, i sussurri serpeggiavano come serpi velenose. «Avete visto?» mormorava la lavandaia, piegata sul catino. «Il conte è uscito dalla stalla… sconfitto.» «E lei? La ragazzina? Non ha detto nulla, eppure l'ha domato.» lievitare la cuoca, tagliando la carne con colpi secchi. «Domato Wolfe?» ribatté una cameriera più anziana, con occhi spalancati. «Impossibile.» «Oh, eppure… l'avete visto anche voi. Non l'ha toccata. Non le ha urlato addosso. È uscito… come un cane con la coda tra le gambe.» Risatine soffocate, sguardi complici, e poi il veleno tornava a scorrere. «Dev'essere stregoneria. Prima il cane, ora i cavalli. Tutti dalla sua parte.» «No, no. È che l'ha sedotto. Con quell'aria innocente... ha incatenato perfino lui.» «Allora è peggio di una strega. È una tentatrice.» Le parole si accavallavano, crescevano, e in poche ore l'intero maniero ne era saturo: Sarah Wolton non era più soltanto la governante. Era colei che teneva il conte Wolfe al guinzaglio. Sarah percepiva gli sguardi su di sé in ogni istante. Alcuni colmi d'invidia, altri di malizia, altri ancora di paura. Senti il ​​terreno mancargli sotto i piedi. Eppure, il silenzio del conte non aiutava: lui non smentiva, non difendeva, non diceva nulla. Il suo silenzio era come un sigillo: per tutti, ormai, quelle illazioni erano diventate verità. E Blackmire, più che un maniero, era una gabbia che si stringeva sempre di più. Tre giorni. Tre interminabili giorni in cui Sarah non gli aveva rivolto nemmeno uno sguardo, nemmeno una parola. Non era un rifiuto plateale,non era una ribellione furiosa come altre volte: era peggio. Era il vuoto. Ovunque andasse nel maniero, Wolfe la percepiva. La sua presenza discreta, elegante, ferma... e quel muro di gelo che lo escludeva da lei. Niente battute mordaci, niente sfide negli occhi verdi, niente tremiti di rabbia o di desiderio. Solo silenzio. E quello silenzio gli stava logorando i nervi più di mille insulti. Una sera lo trovò insopportabile. Sarah attraversava il corridoio con in mano alcune lenzuola fresche di bucato. I suoi passi erano sicuri, la schiena dritta, lo sguardo puntato avanti come se lui non fosse lì. Wolfe, appoggiato con noncuranza a una colonna, strinse il bicchiere di whisky con forza, i muscoli della mascella tesi. «Tre giorni…» sibilò, la voce roca. «Tre giorni che vi ostinate a comportarvi come se io non esistessi.» Sarah non rallentò, non alzò lo sguardo. Il sangue gli ribollì nelle vene. Scattò in avanti e le afferrò il braccio, costringendola a fermarsi. Le lenzuola scivolarono a terra, bianche come neve macchiate dal suo gesto brusco. «Guardatemi, maledizione!» esplose, la voce dura, incrinata da qualcosa che non era soltanto rabbia. Ma Sarah, con un coraggio freddo, alzò gli occhi su di lui solo per un istante. Nessuna paura. Nessuna parola. E di nuovo si voltò, cercando di liberarsi dalla stretta. Wolfe sentì un brivido di frustrazione e smarrimento correggerlo lungo la schiena. Era abituato all'odio, alla sfida, persino alle lacrime. Ma l'indifferenza? Quella no. Quella lo stava spezzando. Il braccio di Sarah era nella sua presa, sottile e fragile sotto le sue dita. Wolfe sentiva i muscoli tesi, il sangue martellargli nelle tempie. Non riuscivo più a sopportarlo. Quella donna lo ignorava, lo sfidava con il silenzio come nessuno aveva mai osato. Con un ringhio basso, quasi animalesco, la strattonò verso di sé. Le lenzuola caddero ai loro piedi, dimenticate, mentre lei gli urtava il petto con un sussulto. «Basta!» tuonò, la voce cavernosa. «Non vi permetto di trattarmi come se fossi… nessuno!» E prima che Sarah potesse reagire, prima che potesse parlare o ribellarsi, Wolfe piegò il capo e la baciò con violenza, un gesto brutale, incendiato dalla collera e dal desiderio. Non fu il bacio di un amante, ma l'assalto di un predatore che aveva perso il controllo. Sarah lo colpì con le mani, cercò di respingerlo, ma lui la serrava come in una morsa, divorando il suo rifiuto, confondendo la sua resistenza con un'ulteriore sfida. Il respiro di lei era spezzato, i suoi occhi spalancati, e per un istante Wolfe vide il riflesso di se stesso in quello sguardo: non un uomo, ma una bestia accecata. Si staccò di colpo, ansimante, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Le mani tremarono, le lasciarono andare il braccio con violenza, come se bruciasse. «Maledizione…» sputò a denti stretti, arretrando di un passo, lo sguardo cupo e febbrile. «Guardate cosa mi costringete a diventare.» Sarah rimase immobile per un lungo, interminabile istante.Le labbra ancora bruciavano di quel bacio rubato, violento, mentre il cuore le martellava come se volesse strapparsi dal petto. Non riuscivamo a respirare, non riuscivamo nemmeno a piangere. Lo fissò, pallida, con gli occhi spalancati, e in quello sguardo c'era solo sgomento. Nessuna parola, nessuna ribellione: il silenzio di chi è stato ferito troppo in profondità. Wolfe tese un passo verso di lei, come per dirle qualcosa, ma Sarah indietreggiò di scatto, con il fiato corto, come se temesse che lui potesse toccarla ancora. Poi voltò le spalle e corse via, senza una parola, senza un addio. I corridoi del maniero riecheggiarono dei suoi passi scalzi, veloci, fino a che il buio la inghiottì. Wolfe rimase solo nello studio, le mani nei capelli, il petto che si sollevava furioso. Per la prima volta non era lui ad aver scelto di chiudere il gioco: era stata lei a strapparsi via dal suo potere. E il vuoto che lasciò dietro di sé fu peggiore di qualsiasi ribellione. Wolfe non dormiva da due notti. Aveva vagato nel suo rifugio come un leone in gabbia, schiacciato da pensieri che non voleva ammettere nemmeno a sé stesso. Ma al terzo giorno non resse più: fece chiamare Sarah. Quando lei entrò nel suo salotto privato, il silenzio cadde come una lama. Sarah aveva il volto pallido, lo sguardo fiero, e si fermò a distanza, come se ci fosse un abisso invalicabile tra loro. Wolfe la fissò. E per la prima volta, fu lui a sentirsi fragile. Le parole gli si aggrovigliarono in gola; lui, abituato a comandare, a ferire con la precisione di un pugnale, non trovava il coraggio di chiedere perdono. Provò a parlare d'altro, a prendere la questione da lontano: — Forse… ho lasciato che la collera prendesse il sopravvento. Voi, con la vostra ostinazione… siete stata come una miccia accesa in questo castello. Sarah non disse nulla. Rimase immobile, lo sguardo fermo, e quella calma glaciale lo disarmava più di mille urla. Wolfe serrò la mascella, le mani contratte. Poi, con un'imprecazione soffocata, lasciare cadere ogni difesa: — Maledizione! Non riesco nemmeno a dirlo! Si voltò verso il camino, passandosi una mano tra i capelli, come se la cosa gli bruciasse la pelle. Infine, con la voce roca, spezzata, lasciò cadere le parole che non aveva mai detto a nessuno: — Mi scuso, Sarah. Per le mie parole… per quel bacio. Per avervi trattata come non meritavate. L'aria si fece densa, quasi irrespirabile. Il silenzio che seguì fu più assordante di un urlo. Sarah lo guardava, sorpresa. Era la prima volta che vedeva il Conte Wolfe piegarsi, anche solo un poco. Sarah rimase immobile, gli occhi spalancati. Non avrebbe mai creduto di udire quelle parole sulle labbra del conte Wolfe. Lui, il tiranno del maniero, il padrone di ombre e di paure, che ora le stava davanti quasi vulnerabile. Le labbra di lei tremarono. Avrebbe potuto approfittare del momento per affondare il colpo, per rinfacciargli ogni ferita subita. Ma invece… accadde qualcosa di inatteso persino a se stessa.— Milord… — la sua voce era bassa, incerta, ma incredibilmente dolce. — Non devi chiedere scusa a me. Non siete voi che siete abituato… a ferire? Perché lo destino? Perché vi punite così? Quelle parole, pronunciate senza accusa ma con sincera compassione, lo colpirono più di uno schiaffo. Wolfe sollevò lentamente lo sguardo su di lei: quegli occhi verdi non lo stavano giudicando. Lo stavano vedendo. Il gelo che gli serrava il petto vacillò, pericolosamente. Non ricordava l'ultima volta in cui qualcuno aveva rivolto a lui non paura, non odio… ma dolcezza. Con un gesto brusco, quasi rabbioso verso sé stesso, si voltò di lato, come se temesse di cedere. Ma la sua voce era roca, incrinata: — Voi… non capite. Non dovreste mai… guardarmi così. Sarah, con un coraggio che non sapeva di avere, fece un passo avanti. Il suo volto era vicino al suo braccio teso, al pugno chiuso. — Forse non capisco, milord… ma io non vi temo. Un silenzio rovente calò nella stanza. Wolfe trattenne il respiro, e per un istante breve, pericoloso, ebbe la sensazione che le difese che aveva costruito per una vita intera loro stessi crollando sotto quello sguardo. Sarah non sapeva da dove avesse preso quel coraggio. Forse dalla stanchezza, forse da tutte le notti passate a piangere, o forse da quella crepa che, finalmente, aveva visto nella corazza del conte. E così, senza pensare, fece ciò che nessuno osava fare: gli passò le braccia attorno alle spalle e lo abracciò. Un abbraccio caldo. Vivo. Non c'era sottomissione, non c'era timore. Solo la dolcezza disarmante di una giovane donna che aveva visto l'uomo dietro il mostro. Wolfe rimase immobile, il respiro bloccato. Per un attimo pensato di respingerla, di scacciarla come aveva fatto con tutti. Ma il suo corpo… non obbedì. Era da anni che nessuno lo toccava in quel modo. Non con desiderio, non con paura, ma con… compassione. Un gesto che non chiedeva nulla in cambio. Il bicchiere che stringeva in mano tremò, rischiando di cadere. Le sue mani rimasero rigide, sospese nell'aria, come se non sapesse dove poggiarle. Il cuore gli batteva forte, troppo forte, come se ogni colpo fosse un colpo di martello. — Sarah… — il suo nome, sulle sue labbra, non era un ordine, non un insulto. Era un sussurro rauco, incerto. Lei non disse nulla. Continuò a tenerlo stretto, lasciandogli sentire il calore della sua guancia contro il petto. E Wolfe... non seppe come reagire. Una parte di lui avrebbe voluto afferrarla, baciarla, bruciarla con la sua fama. L'altra parte, quella che teneva sepolta da anni, voleva solo lasciarsi andare, cedere a quell'abbraccio che scioglieva il gelo accumulato in una vita di solitudine. Per la prima volta, il Conte Nickolas Wolfe era senza parole. Il silenzio che seguì quell'abbraccio fu così denso da far male. Nick chiuse gli occhi come per trattenere qualcosa che finalmente era emerso — e, con un rumore che pareva contorcersi dalla gola, tutto il dolore che per anni aveva sepolto esplose in lui.Lacrime amare gli rigarono il volto, calde e implacabili, sorprendendolo più di qualsiasi collera. Per un istante rimase immobile, incredulo, mentre quelle lacrime tracciavano solchi sul volto che qualcuno raramente — mai — aveva visto. Poi lo sgomento: vedersi così, scoperto, vulnerabile, gli fece montare il sangue alla testa. Come un riflesso istintivo per respingere la propria debolezza, reagì con violenza. Con un gesto scuro e furioso scostò Sarah da sé. Lì dove prima c'era stato un calore che offriva consolazione, ora si spalancò un vuoto gelido. — Che diavolo mi hai fatto? — sibilò, la voce un miscuglio di odio verso se stesso e paura verso ciò che aveva appena provato. —FUORI!!! Si voltò di scatto, non sopportando di essere visto in quella condizione, e lanciò il bicchiere contro la parete: il cristallo si frantumò con un clamore secco che rimbombò nella stanza come un giudizio. Schegge scintillavano sul tappeto, mentre la sua respirazione tornava scomposta e rapida. Sarah rimase lì per un attimo, il corpo ancora tremante dall'abbraccio e poi dalla spinta; lo sguardo le colava di lacrime non trattenute. Il dolore dello scarto, dell'umiliazione e della paura le si mescolava nella gola come un sapore amaro. Non trovo parole: la bocca le si serrò, i muscoli del viso tesi in un'espressione che conteneva tutto il suo sgomento e la sua ferita. Senza rispondere, senza voltarsi, si allontanò. I suoi passi silenzio eranosi ma decisi; uscì dalla stanza come un'ombra. Dietro di sé sentì ancora il rumore dei vetri, il respiro affannoso del conte, e poi il tonfo sordo della sua stessa rabbia che rimbalzava contro le pareti vuote. Wolfe rimase immobile nell'aria segnata dai cocci, come se il gesto avesse scavato un solco indelebile nel suo petto. Le mani, all'inizio dure, si rilassarono; il suo volto si coprì di un'espressione che nessuno avrebbe saputo chiamare confortevole: rabbia, rimorso, disperazione — tutto insieme. Per la prima volta in molti anni, non aveva un ordine da dare che potesse aggiustare quel che aveva rotto. Nel corridoio Sarah appoggiò la spalla al muro e lasciò scendere le ginocchia; le lacrime le rigarono il viso, silenziose ma numerose. Dentro di lei si alternavano dolore, vergogna, e qualcosa di più sottile — la consapevolezza che, qualunque cosa accadesse ora, nulla sarebbe più stato come prima. Il silenzio nella grande sala da pranzo era irreale. Solo il rumore dei bicchieri e delle posate, prima lento, poi del tutto interrotto, accompagnava il respiro pesante del conte Wolfe. Nickolas era seduto a capotavola, vestito di nero come sempre, ma con lo sguardo vitreo, arso dall'alcol. La bottiglia di whisky a metà, il calice ancora pieno. I suoi occhi grigi, fissi, gelidi, non lasciavano spazio a dubbi: era un uomo al limite. Sarah entrò, il cuore già in tumulto. Non era preparata a quell'atmosfera. Non era preparata a lui, così. Camminò il piano, stringendo il vassoio tra le mani. Quando gli fu accanto,Wolfe si mosse con rapidità brutale: la sua mano chiuse come un artiglio sul polso di lei. Un mormorio di sconcerto si alzò immediato tra i servitori, come un'onda di paura. Con un gesto secco, la trascinò a sé, costringendola a sedere sulle sue ginocchia, come se fosse un trofeo da esibire. Sarah sussultò, gli occhi verdi spalancati dallo sgomento. — Mi... milord! — balbettò, cercando di divincolarsi. — Vieni, osate? Qui… davanti a tutti…! Ma Wolfe non sembrava sentire né lei né nessun altro. Il suo volto era a un passo dal suo, il respiro denso d'alcol e disperazione. — Stanotte… — sussurrò con voce grave, che fece gelare il sangue nelle vene di tutti i presenti. — Stanotte vi voglio nel mio letto. E non accetto rifiuti. Il silenzio fu assoluto. Nessuno si muoveva. Nessuno osò respirare. E come se non bastasse, Wolfe abbassò il capo e sfiorò con le labbra il collo di lei, un tocco lento, quasi carezzevole, ma che aveva il peso di una condanna. Un brivido la percorse, metà di terrore, metà di qualcosa che non voleva ammettere. Le mani tremanti si strinsero al tessuto della gonna, gli occhi lucidi ma fieri mentre mormorava, a voce rotta: — Voi… siete crudele… Wolfe chiuse gli occhi, le dita serrate attorno al polso di lei come se avesse paura che gli sfuggisse davvero. Non vedeva i servitori attoniti, non udiva i bisbigli soffocati. Vedeva solo Sarah, il suo tormento, il suo desiderio e la sua vendetta fusi in un unico, distruttivo impulso. Attorno a loro, il maniero tratteneva il fiato. E sapevano tutti che, da quella notte, nulla sarebbe stato più lo stesso. Il silenzio si era appena ricomposto nella sala quando le porte si spalancarono di nuovo. Sarah rientrò, i capelli ramati disordinati, il volto arrossato non più di vergogna ma di furia. Gli sguardi dei servitori si alzarono all'unisono, increduli, mentre il cuore del maniero sembrava smettere di battere. Nickolas Wolfe, ancora seduto a capotavola con il calice in mano, sollevò lentamente lo sguardo verso di lei. L'ombra di un ghigno sprezzante gli sfiorò le labbra... ma si spende subito, perché quella non era la solita Sarah timida, insicura. Era una fiamma. Lei avanzò con passi decisi, e la sua voce squarciò l'aria come una lama: — Bene, milord! Avete dichiarato davanti a tutti che mi volete nel vostro letto! Avete osato umiliarmi davanti ai vostri servi, davanti a questa casa! Si piantò davanti a lui, gli occhi verdi fissi nei suoi grigi. — Allora prenditemi... ora! Qui! Davanti a tutti! Mostrate quanto il grande conte Wolfe sia crudele, autoritario! Fate vedere quanto siete uomo, quanto siete padrone! Un mormorio soffocato si alzò tra i presenti, misto a terrore e incredulità. Nessuno osava muoversi, ma gli occhi correvano dall'una uno schiaffo rovente: lo sguardo glaciale vacillò, per la prima volta. Lei, la piccola governante, lo stava sfidando davanti al suo regno, davanti ai suoi servi. Non con le lacrime, non con il silenzio… ma con un urlo di sfida. E in quell'attimo, in cui il tempo pareva fermarsi, Nickolas Wolfe capì che la giovane donna davanti a lui era più pericolosa di chiunque avesse mai incontrato. Perché non aveva paura. Il calice tremò leggermente nella sua mano. La servitù trattenne il fiato, aspettando la risposta del padrone. Per un istante la sala rimase sospesa in un silenzio irreale. Poi, improvvisa, scoppiò una risata. Non una risata allegra, né divertita: era un suono basso, tagliente, velenoso come il morso di un serpente. La risata del Conte Wolfe. Nickolas si alzò lentamente, appoggiando con calma il calice sul tavolo. La sua figura torreggiava su Sarah, e lo sguardo di ghiaccio la trafiggeva come una lama. — Oh, che scena memorabile, — disse con voce roca, lenta, carica di veleno. — La nostra virtuosa governante che si erge a paladina dell'onore, che sfida il suo padrone davanti alla servitù. Girò lo sguardo verso i servi, che abbassarono immediatamente gli occhi. — Vedete? Perfino le mie domestiche sognano di diventare contesse. Che spettacolo grottesco. Poi tornò su di lei, un ghigno crudele sulle labbra. - Ma non illudetevi, signorina Wolton. Non ho bisogno di prendervi qui davanti a tutti per dimostrare chi comanda in questa casa. Voi stessi, con la vostra furia, con i vostri occhi pieni di fuoco... lo avete appena fatto per me. Le sue parole caddero come pietre. Un altro mormorio serpeggiò nella sala, insieme a paura e sconcerto, e Sarah sentì la pelle incendiarsi, come se Wolfe l'avesse denudata con la sola voce. Poi lui inclinò il capo, e sibilò con malizia: — Ora, tornate pure ai vostri doveri, Miss Wolton. Prima che io decida davvero di concedervi l'onore... davanti a tutti. Il silenzio fu assoluto. Sarah rimase ferma. Il cuore le martellava nel petto, ma negli occhi non c'era più paura, non più vergogna: solo una calma glaciale, come se d'improvviso fosse diventata di pietra. Con un gesto lento, deliberato, si slacciò il grembiule da governante e lo posò sul tavolo, accanto al calice ancora caldo del tocco del conte. Poi, senza abbassare lo sguardo, disse con voce ferma e chiara, udibile da ogni angolo della sala: — Non è il conte Wolfe a comandare questa casa. È la sua crudeltà. Ed è lei, milord, a esserne schiavo. Il brusio che seguì fu soffocato da un silenzio atterrito. Nick rimase immobile, colpito da quelle parole come da un pugno allo stomaco. Sarah fece un passo indietro, il volto pallido ma lo sguardo indomito. — Potete insultarmi, potete calpestarmi davanti a tutti. Ma sappiate questo: non sarò mai la vostra puttana. Con gesto deciso, voltò le spalle e uscì dalla sala sotto gli occhi increduli dei servi, che si scambiarono sguardi carichi di stupore e terrore. E per la prima volta... non fu Wolfe a dettare l'ultima parola. Il quarto giorno, il silenzio di Sarah era diventato assordante . La sua stanza rimaneva chiusa, le finestre serrate, nessuna luce filtrava. A tavola, il posto che non era mai stato suo appariva improvvisamente vuoto, un vuoto che si faceva sentire come un peso in ogni respiro del maniero. Timothy, con la sua discrezione di sempre, attese fino a tarda sera prima di avvicinarsi al conte. Wolfe, seduto nel suo salotto privato, fissava il fuoco con un bicchiere ormai vuoto in mano. — Milord, — disse il maggiordomo, la voce calma ma ferma, — sono quattro giorni che Miss Wolton non scende. Non ha mangiato, non ha lavorato, non ha detto una parola a nessuno. Wolfe strinse la mascella, cercando di mostrarsi indifferente. — Se ha deciso di giocare alla vittima, che lo faccia puro. Tornerà quando vorrà. Timothy, per la prima volta, non si limitò a chinare il capo. Si avvicinò di un passo, osando incontrando lo sguardo del padrone. — O forse non tornerà affatto. Wolfe trasalì impercettibilmente. — Che intenzioni dire? — ringhiò, la voce incrinata da un sospetto che non voleva ammettere. — Intendo dire, milord, che non tutte le catene sono di ferro. Alcuni sono fatti di paura. Voi credete di poter piegare chiunque con la vostra forza, con il vostro nome... con il vostro dolore. Ma Sarah non è come gli altri. E se continuerete così, non sarà lei a spezzarsi. Sarete voi a perderla. Le parole, pronunciate con la calma solenne di chi aveva visto troppo, caddero pesanti come macigni. Wolfe rimase immobile, gli occhi fissi nel vuoto. Per la prima volta da anni, non seppe replicare. Quella notte Wolfe non chiuse occhio. Le parole di Timothy gli rimbombavano nella mente come tuoni: "Non tutte le catene sono di ferro. Alcune sono fatte di paura... e se continuerete così, non sarà lei a spezzarsi. Sarete voi a perderla." Persino il whisky non riusciva più a bruciare via quella verità. Ogni sorso era amaro. Ogni ricordo di Sarah — i suoi occhi verdi che lo sfidavano, il suo sorriso che lo disarmava, il suo tocco che gli aveva fatto tremare le ossa — tornava a tormentarlo. All'alba, stanco, disfatto, eppure agitato come una tempesta, Wolfe prese la decisione che aveva cercato di rimandare. Uscì dal suo salone, percorse i corridoi deserti, e per la prima volta in vita sua esitò davanti a una porta. Quella di Sarah. Si fermò, la mano sospesa sul legno. Non sapeva cosa dire. Non sapevamo come affrontarla. Ogni parola che gli veniva in mente suonava falsa, debole, ridicola sulle sue labbra. Un conte non chiedeva. Non supplicava. Non si giustificava. Eppure lì, davanti a quella porta chiusa, Nicholas Wolfe non era più un conte. Era solo un uomo, diviso tra la paura di entrare e la paura di perderla per sempre. Inspirò profondamente, serrando il pugno per trattenere il tremito che lo stava tradendo. Poi bussò. Una volta, dovuta. — Miss Wolton… Sarah… — la voce gli uscì roca, incrinata. Silenzio. Un silenzio che gli colò addosso come ghiaccio. Allora, in un gesto istintivo, quasi disperato, appoggiò la fronte contro il legno freddo della porta. — Non so cosa diavolo dirvi, — sussurrò, più a sé stesso che a lei. — Non so come… parlarvi senza distruggere tutto. Nessuna risposta. Nessuna voce dall'altra parte. Ma lui rimase lì, immobile, come un uomo che per la prima volta nella vita si scopriva vulnerabile. La porta si aprì piano, scricchiolando. Sarah appare sulla soglia, i capelli ramati sciolti sulle spalle, il volto segnato dalle lacrime recenti, gli occhi gonfi e arrossati. La camicia da notte, semplice e chiara, le cadeva morbida addosso, rendendola fragile e al tempo stesso fiera nella sua dignità ferita. Wolfe la fissò, colpito come da un pugno. Non era mai stato così vicino a perderla, e la vista di quella sofferenza che sapeva di aver causato gli spezzò qualcosa dentro. Fece un passo oltre la soglia, incerto, quasi timoroso, come se quella stanza fosse un territorio sacro in cui non aveva diritto d'ingresso. Per la prima volta, la sua altezza, la sua imponenza, il suo sguardo cupo non furono un'arma, ma un peso. Le parole gli uscirono di gola senza filtro, quasi strozzate, ruvide eppure vere: — Ho bisogno di te. Sarah sussultò, come se quelle quattro sillabe fossero stati più incredibili di qualsiasi offesa che lui le avesse mai scagliato addosso. Lo fissò, incredula, le labbra che si aprivano e si chiudevano senza riuscire a trovare una risposta. Wolfe abbassò lo sguardo, incapace di sostenere i suoi occhi verdi. — Non so perché… non so come sia successo, — continuò, la voce bassa, quasi rotta, — ma da quando siete entrati in questo inferno di pietra… nulla è più lo stesso. Il silenzio calò tra loro, denso, carico di tutto ciò che non era mai stato detto. Sarah inspirò piano, il cuore in tumulto. Per la prima volta, vedeva l'uomo dietro al conte, lacerato, fragile, umano. E non sapeva se odiarlo ancora di più per quella confessione, o se… lasciarsi travolgere. Calde lacrime iniziarono a rigarle le guance, scendendo silenziose mentre parlava. — Mi avete ferita, milord… umiliata… derisa… — la voce le tremava, ma non era più sottomessa, era un fiume che rompeva gli argini. — Io vi ho sempre… capito. Ho sempre visto dietro la vostra corazza, dietro quel gelo... la sofferenza. Ho sempre cercato di capirvi. Wolfe la fissava immobile, ogni parola come una lama che gli entrava sotto pelle. Sarah scosse la testa, le spalle che le tremavano mentre si asciugava le lacrime con il dorso della mano. — Ma non posso lasciarmi trattare in questo modo… — continuò, più piano, la voce rotta eppure ferma. Fece un passo avanti, il cuore in gola. La sua mano, tremante, si sollevò e andò a posarsi sul petto del conte, proprio all'altezza del cuore. Wolfe trasalì, un brivido percorse il suo corpo mentre sentiva quella mano minuta ma calda, reale, viva, sfiorargli il punto più vulnerabile. — Voi dovete… farmi entrare, Nickolas, — mormorò. — Qui. — E con un piccolo gesto premette appena la mano sul suo petto, come a dire qui dentro. Il conte rimase immobile. Per insieme la prima volta da anni, sentì il cuore battuto in modo incontrollato, sentì il peso di tutto il dolore e la rabbia accumulati... e qualcosa di nuovo, pericoloso e dolce, che lo stava scardinando dall'interno. Il suo respiro si fece più profondo. Chiuse per un istante gli occhi, le sue grandi mani incerte si alzarono appena, come per afferrarle le spalle, ma restarono sospese a mezz'aria, tremanti. — Sarah… — sussurrò soltanto, e nella sua voce non c'era più il padrone del maniero. C'era solo un uomo, spaventato da ciò che provava. Le mani del conte restavano a mezz'aria, incapaci di stringerla. Era un muro d'orgoglio e dolore, eppure nei suoi occhi grigi, fissi su di lei, Sarah intravide il crepaccio: lottava con se stesso, diviso tra il desiderio e la paura di lasciarsi andare. Fu allora che lei cedette. Non alla sua autorità, ma al richiamo segreto che leggeva dentro di lui. Con un singhiozzo soffocato lo avvolse in un abbraccio improvviso, le braccia attorno al suo petto rigido, il viso premuto contro la stoffa nera della sua camicia. Wolfe rimase immobile, sconcertato, il cuore martellante sotto quella stretta. Poi Sarah si sollevò, appena, sulle punte dei piedi. I capelli ramati le scivolarono lungo le spalle bagnandogli la guancia mentre, senza più esitare, le sue labbra cercarono le sue. E lo baciò. Un bacio diverso da quello imposto, diverso da quello rubato: era dolce, ma ardente, colmo di fiducia e sfida insieme. E proprio quella purezza, quell'abbandono così reale, così umano, devastò Nickolas Wolfe. Un brivido gli attraversò la schiena. Con un gemito basso, quasi un ringhio, il muro cedette: le sue mani finalmente si chiusero su di lei, stringendola contro di sé con una forza disperata, quasi a volerla trattenere dal fuggire. Il bacio, da esitante, divenne rovente, travolgente. Per la prima volta Wolfe non comandava, non pretendeva: si arrendeva. E nel suo petto, laddove Sarah aveva posato la mano, qualcosa di antico e sepolto esplose: non solo desiderio, ma bisogno. Il bacio divenne un incendio. Wolfe, come accecato, perse il controllo che sempre lo aveva reso padrone di sé e degli altri. Le sue mani, forti e ruvide, scivolarono lungo i fianchi di Sarah, attirandola sempre più contro il suo corpo. Sentiva il calore di lei filtrare attraverso il tessuto leggero della camicia da notte, troppo fragile per frapporsi tra loro. Il respiro gli si spezzava in gola, mescolandosi al suo, mentre la sollevava appena da terra, costringendola ad abbandonarsi del tutto al suo abbraccio. La sua bocca la divorava, ora con urgenza, ora con lentezza crudele, quasi a volerle dimostrare quanto fosse ormai prigioniera del suo desiderio. — Sarah… — mormorò contro le sue labbra, la voce roca, spezzata, diversa da qualsiasi tono avesse mai usato. Non era più il milord arrogante, ma un uomo che stava cedendo all'istinto. La fece arretrare a piccoli passi, senza mai staccarsi da lei,fino a che la schiena di Sarah non urtò contro il bordo del letto. Il cuore di lei esplode in un battito disordinato: lo sguardo grigio di Wolfe, l'arso di passione, la teneva incatenata. Le dita di lui risalirono a catturare le sue spalle, sfiorando la pelle nuda che la stoffa ormai scivolata lasciava intravedere. Wolfe abbassò il capo, il respiro febbrile sul suo collo, e un bacio febbrile, quasi disperato, le incendiò la pelle. — Non so più… se odiarvi o desiderarvi… — confessò, in un sussurro che bruciava come fiamma viva. La tensione era al culmine: il confine tra attrazione e pericolo stava per spezzarsi. Wolfe, schiacciato dal proprio tormento, rischiava davvero di oltrepassare il limite, di dimenticare ogni freno, ogni regola. l respiro di Sarah era spezzato, un alternarsi di ansimi e sospiri che si fondevano con quello di Nickolas, caldo e irregolare. La sua camicia da notte, ormai scivolata giù dalle spalle, lasciava intravedere la pelle chiara che tremava non di paura, ma di febbrile attesa. Wolfe la fissava con gli occhi grigi incendiati, il volto contratto come se dentro di lui due forze opposte si stessero massacrando. Poi, con un ringhio basso, si arrese. — Maledizione, Sarah… non posso più resistervi… — sibilò, affondando la bocca sulle sue labbra con un'urgenza brutale. Lei, con un gemito spezzato, non lo respinse. Al contrario, le sue mani tremanti si aggrapparono alla sua camicia nera, tirandolo a sé come se fosse l'unica cosa a cui poteva aggrapparsi per non cadere. — Non fermatevi… — sussurrò, con voce quasi irriconoscibile, rotta dal desiderio e dalla resa. — Non questa volta… Il cuore di Wolfe sobbalzò. Quelle parole furono come un colpo al petto: lui, che non aveva mai concesso nulla, che aveva sempre preso senza chiedere, ora sentiva che quel momento non gli apparteneva solo per autorità o forza. Lei lo voleva. — Lo volete davvero, allora? — domandò con voce roca, i suoi occhi cercando disperatamente quelli di lei. — Non è paura…? Non è pietà…? Sarah scosse il capo, le lacrime che ancora le rigavano le guance si mescolarono a un sorriso fragile e disarmato. — No, Nickolas… è solo… voi. Quel “voi” fu la chiave che fece crollare l'ultima barriera. Wolfe la sollevò di peso e la adagiò sul letto, chinandosi su di lei. I capelli neri gli cadevano sugli occhi mentre la sua bocca tracciava una scia di baci febbrili sul collo, sulle spalle, sulle labbra di nuovo, in una resa che non era più un gioco di potere, ma un incendio che li travolgeva entrambi. — Sarah… — la sua voce era un gemito, rotta e bruciante. — Siete la mia follia. E lei, stringendolo con forza, gli rispose senza esitazione: — E voi siete la mia. In quell'attimo, non c'erano più padrone e governante, più odio e paura. Solo due anime spezzate che, finalmente, si lasciavano andare l'una all'altra, in un abbraccio che era insieme rovina e salvezza. La camicia di Sarah scivolò come un sussurro ai lati del corpo, cadendo a terra con lentezza. Lei, distesa sul letto, con i capelli ramati sparsi sul cuscino, sembrava una creatura di luce nel cuore della tana di un lupo. Il suo respiro era corto, il petto che si alzava e abbassava in un ritmo febbrile, ei suoi occhi verdi, lucidi, non si staccavano da lui. Nickolas, sopra di lei, era un vortice. I muscoli tesi, il volto contratto da un desiderio che non riuscivano più a trattenere. Si chinò, sfiorandola con la bocca lungo il collo, fino a sentire i brividi di lei correre sulla pelle. — Sarah… siete la mia rovina… — gemette, e in quella voce c'era insieme rabbia e disperazione, passione e resa. Lei gli accarezzò il volto con dolcezza, un gesto semplice che lo devastò più di mille parole. — Allora… roviniamoci insieme, Nickolas. — Non ci fu più ritorno. Le sue mani forti la strinsero, la guidarono in quell'abisso proibito. Il loro bacio divenne un respiro unico, un intreccio di corpi che si cercavano e si completavano con urgenza. Non c'erano più veli né difese: solo pelle contro pelle, desiderio contro desiderio. Il mondo attorno a loro sparì. I tuoni lontani del temporale, le mura fredde del maniero, perfino il dolore che ciascuno portava dentro: tutto dissolto, inghiottito dal ritmo febbrile della loro unione. Ogni gemito, ogni sospiro, era un grido silenzioso di liberazione. Nickolas, che aveva sempre comandato, per la prima volta si arrese davvero: si perse in lei, senza maschere né corazze. E Sarah, che aveva sempre temuto e amato quella tempesta, lo accolse senza esitazione, trovando nella sua oscurità un'inaspettata luce. Quando finalmente crollarono, ansimanti, le loro fronti unite ei cuori ancora furiosi nel petto, non c'era più differenza tra rovina e salvezza. Erano diventati l'uno dell'altra. L'alba filtrava a fatica attraverso le pesanti tende di velluto, tingendo la stanza di un chiarore lattiginoso. Un silenzio irreale regnava, rotto solo dal crepitio lontano di un ceppo che ardeva ancora nel camino. Sarah si appena mosse sotto le lenzuola, un brivido le corse lungo la pelle nuda. Solo allora si rese conto di dove fosse: tra le braccia del conte, i loro corpi ancora intrecciati, senza nulla a separarli. Si irrigidì, portando d'istinto la coperta più in alto, fino alle spalle. Il cuore prese a martellare. Nickolas aprì gli occhi nello stesso istante. Per un attimo rimase immobile, confuso, quasi non riconoscesse la scena davanti a sé. Lei, i capelli ramati sparsi sul cuscino accanto al suo viso, le labbra arrossate dai baci, le guance segnate dal sonno agitato... e le lenzuola che non bastavano a celare ciò che la notte aveva portato via. Inspirò bruscamente, voltando lo sguardo verso il soffitto. — Dio mio… — mormorò, più a se stesso che a lei. Non era venuto lì per questo. Era andata a cercarla per chiederle perdono, per tentare di colmare l'abisso che li divideva. E invece… Sarah deglutì, stringendosi contro il bordo del letto, quasi a voler mettere spazio tra loro. La voce le tremava.— Milord… io… non so come… sia potuto accadere… Lui si voltò di scatto, gli occhi scuri che la inchiodarono. Non c'era freddezza, stavolta, ma un tormento profondo. — È accaduto perché non vi ho saputa fermare. — Quelle parole la ferirono e al tempo stesso le diedero sollievo: era confusione, non indifferenza. Nick si passò una mano tra i capelli scompigliati, restando seduto a metà tra il letto e l'orlo dell'abisso interiore. — Non era mia intenzione, Sarah… — il suo tono era basso, quasi spezzato, — …ma vi ho desiderata con una forza che non ho saputo controllare. Lei abbassò lo sguardo, stringendo le lenzuola al petto. — Ed io… non ho resistito. — Per un lungo istante, il silenzio si caricò di tutto ciò che non osavano dire. Il peso del peccato, della passione, del confine valicato. Non erano più padrone e governante: quella notte li aveva uniti, ma anche legati a un destino da cui non ci sarebbe stato ritorno. Sarah trattenne il respiro, il volto che le ardeva come fuoco. Non osava guardarlo, ma i suoi occhi furono traditori: lo seguirono mentre si alzava, lasciando scivolare le lenzuola che lo avevano appena coperto. Il corpo del conte, segnato da muscoli tesi e da cicatrici antiche, si stagliava contro la luce incerta del mattino. Era un'immagine che non avrebbe mai dimenticato. Arrossì violentemente, serrando gli occhi e stringendo il tessuto tra le mani per coprire sé stessa, come se bastasse per cancellare ciò che avevano fatto. Il cuore le martellava in gola, e un pensiero ossessivo le squarciava la mente: gli ho donato la cosa più preziosa che avevo… cosa ne sarà di me adesso? Nickolas si fermò un istante, dandole le spalle. Inspirò a fondo, il respiro pesante come un uomo che porta un macigno sul petto. Non riuscivo a voltarsi. Lui, il conte Wolfe, che aveva eretto mura invalicabili intorno al proprio cuore, ora le sentiva crollate, ridotte in polvere, abbattute da una sola notte e da una sola donna. — Sarah… — mormorò, senza riuscire a guardarla. — Voi… non capite… cosa avete fatto a me. Lei serrò le labbra, con la gola stretta dall'ansia e dalla vergogna. — Io… vi ho dato ciò che non avrei dovuto. — la sua voce tremava. — E ora… non so se riuscirò a perdonarmi. Lui si voltò di scatto, ei suoi occhi, cupi e scossi, si posarono sul volto arrossato di lei. — Perdonarvi? — ribbattè, quasi con amarezza. — Siete voi ad avermi... distrutto. Avete spezzato tutto ciò che teneva in piedi questo... questo inferno in cui vivo! Un silenzio tagliente calò tra loro. Sarah abbassò lo sguardo, le lacrime che minacciavano di scivolare. Nick, ancora nudo e vulnerabile come non era mai stato davanti a nessuno, si passò le mani tra i capelli e si lasciò cadere su una sedia accanto al letto, lo sguardo perso nel vuoto. Non era stato solo desiderio. Era stata resa. Nickolas rimase a lungo seduto, il capo tra le mani, come se stesse lottando contro un demone interiore. Poi, alzò lo sguardo su di lei: non c'era più l'arroganza del conte, ma lo smarrimento di un uomo nudo nel corpo e nell'anima. — Non avrei dovuto toccarvi, Sarah. — la voce gli uscì roca, spezzata. — Non avrei dovuto permettere a me stesso di desiderarvi. Perché voi… voi non sapete con chi vi siete legati stanotte. Sarah lo fissava, ancora stretta nelle lenzuola, il cuore stretto in una morsa. Nick si alzò, fece due passi verso di lei e si fermò, come bloccato da una catena invisibile. — Io non so amare. — sputò fuori quelle parole come se bruciassero. — Non l'ho mai saputo fare. E chi ha provato ad avvicinarsi a me… è morto. Mia sorella, mio ​​padre, mia madre... chiunque mi ha toccato è stato inghiottito dall'oscurità che porto dentro. Il suo volto era una maschera di dolore crudo. — Voi, con la vostra luce… con la vostra ostinazione… siete l’unica che sia mai riuscita a scalfirmi. — si interruppe, serrando la mascella. — E questa è la mia condanna. Perché vi desidero con tutto ciò che sono, ma vi perderò. Vi perderò come ho perso tutto. Sarah lo guardava, sconvolta: non era più il padrone crudele, non era più il lupo che l'aveva divorata con la sua forza. Era un uomo che stava implorando senza dirlo, che stava crollando davanti a lei. Un passo. Poi un altro. Si inginocchiò accanto al letto, le mani che afferravano le lenzuola come per ancorarsi. — Perdonatemi, Sarah. — sussurrò, con gli occhi che bruciavano di lacrime represse. —Io non vi merito. Nickolas ha alzato il capo dello scatto. Gli occhi grigi, di solito duri come pietra, ora erano colmi di un dolore feroce e di un'ombra di speranza che lui stesso non capiva. Sarah, ancora avvolta nelle lenzuola, tremava. Aveva abbassato lo sguardo, come se le parole appena dette fossero un peccato. — Io... io vi amo. — ripeté, quasi senza voce, con le guance bagnate di lacrime. Il cuore di Nick sobbalzò. Per un istante sento il mondo fermarsi. Tutta la rabbia, l'alcool, le urla, gli anni passati a costruire muri... tutto sembrò svanire sotto quella frase. Fece per parlare, ma la voce gli si spezzò in gola. Si portò una mano alla bocca, come a trattenere qualcosa di troppo grande. — Non dite questo… — mormorò infine, rauco, scosso. — Non sai cosa stai dicendo, Sarah. Io... io vi distruggerò. Ma lei sollevò il mento, ei suoi occhi verdi erano lucidi e fieri insieme. — Non siete voi a decidere chi devo amare. — sussurrò, e per la prima volta la sua voce non tremava. — Vi ho visto quando nessuno vi guardava. Ho visto l'uomo dietro il lupo. Nick rimase immobile. Le sue mani tremavano. Un passo avanti, come attratto da una forza più grande di lui. Poi si fermò, come se stesse lottando con se stesso. — Non potete amarmi, Sarah… — disse piano, quasi un gemito. — Io non so cosa farne dell'amore. Non l'ho mai avuto. Non so… tenerlo senza ferirlo. Eppure, mentre lo diceva, un braccio gli cadeva attorno alle spalle, entra in cerca di calore. In quel silenzio sospeso, con lui inginocchiato accanto al letto e lei che lo guardava dall'alto,era chiaro che qualcosa si era spezzato e ricomposto allo stesso tempo. Lui, il predatore, non aveva più armi. Lei, la preda, non fuggiva più. Nick rimase un istante immobile, il respiro rotto, il petto che si sollevava come sotto il peso di mille catene. Poi, all'improvviso, quelle catene si spezzarono. Con un gemito soffocato la afferrò, la strinse a sé con una forza disperata, come se avesse paura che lei potesse dissolversi da un momento all'altro. Il suo volto si nascose nel collo di lei, caldo, febbrile. — Dio, Sarah… — mormorò con voce roca e spezzata. — Non riesco più a resistervi. Non voglio più resistervi. Lei lo accolse, tremante ma determinata, le mani che gli accarezzavano i capelli scompigliati, la schiena nuda e tesa. E in quell'abbraccio non c'era più lotta, non c'erano più muri. C'era soltanto resa. Nick sollevò il viso, e le loro labbra si cercarono di nuovo, questa volta senza violenza, senza crudeltà: fu un bacio ardente, divorante, ma colmo di un bisogno più grande della rabbia stessa. Sarah sospirò contro di lui, e fu come un fuoco che li avvolse entrambi. Le lenzuola scivolarono, i corpi si intrecciarono, e la passione li travolse. Non c'era spazio per il pensiero, solo per quel bisogno feroce di sentirsi vivi, interi, uniti. E fu così che, con la stessa intensità di un uragano, si amarono di nuovo. Ma stavolta non era più solo desiderio: era una confessione, un grido muto che diceva io ti appartengo. Sarah si risvegliò lentamente, tra le pieghe di lenzuola che ancora trattenevano il calore di un corpo che non c'era più. L'istinto fu quello di cercarlo, allungando la mano sul lato vuoto del letto. Freddo. Si morse il labbro, il cuore che pulsava con un ritmo incerto. Con calma solo apparente si tirò su, indossò in fretta i propri abiti, si pettinò con le mani tremanti e, dopo un lungo respiro, scese al piano di sotto. La luce del mattino filtrava dalle alte finestre, i corridoi sembravano più silenziosi del solito. Quando apparve nella sala da pranzo, i servitori abbassarono lo sguardo, come se non osassero affrontarla. Timoty, invece, la vide. Per un attimo sorrise, ma subito dopo le sopracciglia gli si aggrottarono: lo sguardo dell'uomo che aveva visto troppo e capito tutto. Sarah chinò il capo, incapace di sostenere quella muta domanda nei suoi occhi. Poco dopo, Timoty raggiunse lo studio del conte. Varcò la soglia senza attendere un invito. Nickolas era lì, chino sulla scrivania, una mano che stringeva il bicchiere mezzo vuoto di whisky. — Non è esattamente questo — disse il maggiordomo, la voce ferma e priva di reverenza — ciò che vi aveva consigliato, milord. Wolfe sollevò lentamente lo sguardo, le pupille scure come tempesta. — Guardatevi, conte. — Timoty fece un passo avanti, rischiando più di chiunque altro osasse in quella casa. — Non è stata lei a cedere al vostro gioco. Siete stato voi, ancora una volta, a lasciarvi divorare dai vostri fantasmi. Il bicchiere tremò tra le dita di Nickolas, come se fosse pronto a scagliarlo contro il muro. Ma non lo fece. Restò immobile, fissando il fedele servitore con un misto di odio e impotenza. — Se continuerete così — concluse Timoty con voce dura — la perderete. E allora, milord, non avrete più nulla. Silenzio. Solo il respiro teso del conte, e il peso di una verità che non poteva negare. Quel giorno, il maniero ribolliva di attività. I servi correvano da una stanza all'altra, preparando alloggi, lucidando argenti, sistemando fiori freschi. Sarah, ancora scossa dagli eventi delle notti passate, non capiva il motivo di tanto fermento. Poi, udì i bisbigli. — Lady Violet... — mormoravano due cameriere, occhi brillanti di malizia. — È tornata... l'amante del conte. Il sangue le gelò nelle vene. Amante? Una parola che le bruciava nelle orecchie. E allora accadde. Una carrozza nera dalle finiture dorate si fermò davanti al portone principale. Sarah, ferma sul pianerottolo, trattenne il respiro. Ne scese una donna che sembrava uscita da un dipinto: alta, elegante, con un abito di seta color cremisi che abbracciava le curve con disarmante sicurezza. I capelli scuri erano raccolti in un'acconciatura impeccabile, e il sorriso era quello di chi sa di essere attesa. Appena Nickolas comparve sull'uscio, Lady Violet non esitò un istante: corse verso di lui, e senza il minimo pudore gli afferrò il volto e lo baciò sulla bocca. Un bacio lungo, sicuro, che reclamava una consuetudine. Sarah sbiancò. Il mondo le crollò addosso. La gola le si chiuse, gli occhi si riempiono di lacrime che lottavano per non scendere. Quelle voci, quei sussurri… non erano menzogne. Quella donna era reale. Ed era sua. I servitori, fermi in cerchio attorno alla scena, scambiarono occhiate complici: il ritorno di Lady Violet non lasciava spazio a dubbi. Il conte Wolfe aveva già la sua padrona di cuore e di letto. Sarah strinse le mani fino a farsi male. La rabbia e il dolore si mescolarono nel petto, soffocandola. Non riuscivamo a distogliere lo sguardo da loro due, da quel bacio che le lacerava l'anima. E poi, quando Nickolas alzò appena lo sguardo, i suoi occhi incontrarono quelli di Sarah. Un lampione. Che sorpresa? Di colpa? O solo di fastidio per essere stato visto? Lei non seppe leggerlo. Sapeva solo che dentro di sé qualcosa si era spezzato. Sarah non mosse un passo. Ogni fibra del suo corpo urlava di fuggire, di scappare lontano prima che le lacrime tradissero la sua anima. Ma non lo fece. Rimase pietrificata sul pianerottolo, la schiena dritta, il viso bianco come il marmo. Gli occhi verdi si alzarono e incontrarono quelli di Nickolas. Non abbassò lo sguardo. Fu una sfida muta, disperata: "Guardami. Non osare fingere che non conti nulla. Non osare cancellare ciò che c'è stato tra noi." Lady Violet, ancora stretta al braccio del conte, si accorse di quella tensione. Lentamente si voltò, i suoi occhi color ambra scivolarono su Sarah. Un sopracciglio arcuato, un mezzo sorriso carico di velenosa superiorità. La studiò dall'alto in basso come si farebbe con una serva qualunque, senza degnarla di più attenzione. Nickolas parve irrigidirsi, il suo ghigno di facciata incrinato per un istante. Ma, davanti all'intera servitù che osservava con occhi avidi, scelse il ruolo che conosceva meglio: quello del lupo crudele e inafferrabile. — Lady Violet, siete giunta finalmente. — La sua voce risuonò glaciale, volutamente enfatica. — Il maniero non poteva che attendere il vostro ritorno. Non un cenno a Sarah. Non una parola. Ma quello sguardo, quell'attimo in cui i suoi occhi avevano tremato nei suoi, era inciso a fuoco dentro di lei. Il silenzio pesava sul grande ingresso. I servitori si scambiavano occhiate febbrili: la governante che fissava il conte, la donna che un tempo era stata — ed era ancora — la sua amante, e il padrone al centro, glaciale e impenetrabile. Sarah sentì il cuore spezzarsi, ma non arretrò. Non avrebbe concesso a Violet né a lui la vittoria del vederla piegata. Rimase lì, ferma come una statua, gli occhi fissi negli occhi del conte, finché fu Violet a ridere piano ea trascinarlo via, nel salone. La voce di Lady Violet si sparse nell'aria come veleno: — La vostra nuova governante sembra… molto interessata a voi, Nickolas. Che trovata curiosa... Il colpo fu assestato. E Sarah sapeva che le voci, da quel momento, sarebbero esplose più feroci che mai. Il salone era illuminato da decine di candele, l'aria impregnata del profumo dolciastro di rose fresche. Lady Violet sedeva languidamente su una poltrona, sorseggiando vino rosso come se fosse regina indiscussa del maniero. Sarah entrò con passo misurato, un vassoio tra le mani: l'occasione perfetta che Violet aveva atteso per lanciare la sua sfida. — Ah, la governante. — La voce di Violet era setosa, carica di veleno. — Finalmente posso vedere più da vicino colei che, a quanto pare, occupa le giornate del mio caro Nickolas. Sarah abbassò appena il capo, senza inchinarsi. — Signora Violetta. — La sua voce era ferma, sorprendentemente calma. Violet sorrise, mostrando i denti bianchi come zanne. — Sapete, mia cara, vi trovo… affascinante. C'è coraggio nel vostro sguardo. Ma forse anche un po' d'imprudenza. I lupi sanno essere creature pericolose. E voi vi siete avvicinata troppo alla tana. Sarah ha posato il vassoio sul tavolino con gesti precisi, senza tremare. Poi rialzò lo sguardo. — Forse, Lady Violet, ciò che rende un lupo davvero pericoloso non è la sua tana… ma le catene che qualcuno tenta di imporgli. Un lampone attraversò gli occhi della donna. — Che insolenza. — Sussurrò, inclinando la testa con finta dolcezza. — Dunque pensate di conoscere il conte Wolfe meglio di me? — Non mi permetterei. — Sarah strinse le mani dietro la schiena. — Ma credo che nessuno possa pretendere di possedere un uomo come lui. Neppure voi. Il silenzio si fece pesante, tagliente come una lama. Lady Violet rise piano, un suono cristallino ma privo di allegria. — Oh, sei davvero interessante. Capisco perché il conte abbia deciso di… divertirsi con voi. Ma ricordatevi, cara: i giochi finiscono sempre. E quando ciò accade... il lupo torna al suo branco. Sarah serrò le labbra, lasciando che le parole colpissero come frustrate. Ma non abbassò lo sguardo. La sua voce si alzò limpida, anche se appena un sussurro: — Forse, Lady Violet. Ma alcuni lupi… sanno anche cambiare. E se ne andò, lasciando dietro di sé il vassoio e un silenzio carico di scintille, mentre Violet stringeva il bicchiere fino quasi a spezzarlo. Il maniero taceva, immerso nel silenzio notturno. Le fiaccole nei corridoi ardevano piano, gettando ombre lunghe sulle pareti di pietra. Nickolas avanzava deciso, il mantello appena gettato sulle spalle: non riusciva a dormire, non con quell'incontro improvviso con Violet che aleggiava come un veleno nell'aria. E poi la vide. Sara. Camminava nella direzione opposta, con i capelli sciolti che le cadevano sulle spalle e il volto contratto da un dolore feroce. I loro sguardi si incrociarono e in quell'attimo il cuore del conte ebbe un sussulto. — Sarah… — iniziò, con voce roca. — Lasciatemi spiegare. Violet non è ciò che sembra, io— Lei lo interruppe di colpo, con rabbia bruciante: — Risparmiatemi le vostre menzogne, milord! — sputò le parole come lame. — Ho visto con i miei occhi… non uno sguardo, non un gesto, ma un bacio! Un bacio che non si dà a un'amica, né a un'ombra del passato! Nick trasalì, la mano a mezz'aria, incapace di avvicinarsi. — Non capite… non è come pensate. Violet... lei non ha nessun diritto su di me. Non più. Sarah rise, una risata spezzata, piena di dolore. — E io? Io che cosa sono, allora? Una distrazione? Un gioco da consumare prima che torniate alle vostre vere amanti? Il suo volto arrossì, gli occhi lucidi di lacrime e di rabbia. Nick fece un passo, la voce greve di emozione: — No, voi siete l'unica… Ma non fece in tempo a finire. La mano di Sarah si alzò e lo colpì con uno schiaffo secco, il rumore echeggiò nel corridoio come una condanna. — Non osato! — gridò, la voce spezzata. — Non osate pronunciare quelle parole dopo avermi umiliata davanti a tutti! Nick rimase immobile, il volto scosso dallo schiaffo e ancor più dalle parole. Sarah lo fissò ancora un istante, poi lo superò con passo deciso, lasciandolo lì, solo, con il fuoco dell'ira e un dolore che lo stava dilaniando. La carrozza si allontanava lenta sul viale, le ruote che scricchiolavano sull'acciottolato umido. Lady Violet, elegante e altera come sempre, non si era voltata indietro nemmeno una volta. Le ultime parole che aveva sussurrato a Sarah ardevano ancora come fuoco velenoso: «Due notti nel suo letto, mia cara. E vi assicuro... magnifiche. Il lupo, quando vuole, morde davvero.» Sarah non aveva risposto. Non le aveva dato la soddisfazione di vederla cedere. Si era limitata a fissarla con gli occhi spalancati, lo stomaco in subbuglio, le mani serrate fino a farsi male. Ma ora... ora che la carrozza era sparita oltre il cancello del maniero,non ci fu più nulla che potesse trattenerla. Il respiro le si spezzò in gola, le gambe cedettero e crollò sul ghiaietto del giardino, le ginocchia che graffiavano la terra umida. Un singhiozzo le sfuggì, seguito da un altro, poi da un pianto incontrollabile, disperato. — Come avete potuto… — mormorava tra le lacrime, stringendo i pugni contro il petto. — Come avete potuto… Il vento autunnale le scompigliava i capelli ramati, facendoli brillare sotto la luce grigia del pomeriggio. Non si curava dei giardinieri in lontananza, né dei domestici che la osservavano da dietro le finestre. La governante, sempre impeccabile e padrona di sé, ora era solo una donna ferita, annientata da una verità che la schiacciava. In quel momento il maniero, con le sue torri scure e le mura severe, le parve una prigione. Ogni pietra le ricordava lui. Nicolas. Il suo tocco, i suoi baci, le sue promesse mute. E ora quelle immagini si mescolavano alle parole velenose di Violet, creando un dolore insopportabile. Si lasciò cadere di lato, accasciata sull'erba bagnata, le mani che coprivano il volto. Nessuna forza, nessuna dignità. Solo un cuore infranto, che batteva ancora per l'uomo che l'aveva tradita. Nickolas la trovò lì. Il giardino era immerso in una quiete irreale, interrotto solo dai singhiozzi rotti di Sarah. Il conte rimase fermo per un istante, immobile come una statua, osservando quella figura piegata sul prato, i capelli ramati sciolti sulle spalle, la camicia da lavoro inumidita dalla rugiada e dalle lacrime. Era disarmante. Troppo. Lui, che aveva costruito muri di ferro e ombre per proteggersi, ora si sentiva nudo davanti a quel dolore. Fece un passo, poi un altro. Non c'era traccia della sua solita arroganza: solo un uomo che si avvicinava a una ferita aperta. — Sarah… — mormorò con voce roca, spezzata. Lei sollevò il viso, gli occhi gonfi, le guance solcate di pianto. Per un istante parve esitare. Ma poi, lentamente, si rimise in piedi. Tremava, ma non vacillava. — Milord — disse con un filo di voce, e quell'appellativo, carico di distanza, gli trapassò il petto come una lama. Nickolas allungò una mano, quasi per toccarla, ma lei fece un passo indietro. — Non potete avvicinarvi. Non questa volta. Lui spalancò la bocca, cercando parole che non uscivano. Lei lo fissò, e nei suoi occhi c'era la resa più crudele di tutte: la decisione. — Io… me ne vado, milord. — La sua voce si fece più ferma, anche se il dolore la incrinava. — Non posso restare. Non dopo tutto quello che è successo. Non dopo... lei. Nick restò immobile, colpito da un fulmine. — Voi… vi licenziate? — balbettò incredulo, la gola secca. Sarah annuì, serrando le labbra per non cedere di nuovo al pianto. —Sì. È finita. Per sempre. E prima che lui potesse fermarla, si voltò e iniziò ad allontanarsi verso la casa, le spalle dritte, il passo incerto ma deciso. Nick rimase lì, nel mezzo del giardino, incapace di muoversi. Un dolore sordo gli esplose nel petto, qualcosa che non aveva mai provato:non la rabbia, non l'orgoglio ferito, ma il terrore autentico di averla persa. Davvero. — Sarah… — sussurrò, quasi senza fiato, ma lei non si voltò. Il maniero, che fino a un attimo prima era il suo regno, ora gli sembrava vuoto. E nel silenzio che seguì, Nickolas Wolfe capì che la sua più grande battaglia non era mai stata contro il mondo. Era contro se stesso. Tre mesi. Novanta giorni in cui il maniero era stato avvolto da un silenzio innaturale. Le stanze, un tempo animate dal passo leggero di Sarah, ora sembravano più fredde, più vaste, più spoglie. Nickolas non lo diceva a nessuno, ma i servi lo vedevano. Il bicchiere di whisky, sempre più spesso dimenticato mezzo pieno sullo scrittoio. Le notti insonni, i passi pesanti che echeggiavano nei corridoi fino all'alba. I suoi scoppi d'ira non erano più temuti, ma compresi: erano il riflesso di un dolore che non riusciva a mascherare. Timoty, che conosceva il suo padrone meglio di chiunque altro, lo vedeva fissare i giardini dal balcone, lo sguardo perso, come se aspettasse che da un momento all'altro una figura minuta, con i capelli ramati sciolti, comparisse laggiù, tra le rose. Ma Sarah non c'era. Non era tornata. E con lei se n'era andato tutto ciò che rendeva il maniero vivo. I servi, che avevano tanto mormorato e sussurrato, ormai non avevano più dubbi. La signorina Wolton non era stata l'amante segreta del conte. Non era una strega capace di incantare uomini e animali. Era molto di più. Era la donna che il conte Wolfe amava. E lo capivano dal vuoto che lasciava. Dalla ferita che lui, con tutta la sua superbia, non riusciva a nascondere. Dallo sguardo cupo che non si addolciva mai, se non nei rari istanti in cui pronunciava il suo nome sottovoce, convinto che nessuno lo sentisse. Il maniero intero sapeva la verità: la governante aveva spezzato le catene del lupo… e poi lo aveva lasciato solo, a morire di silenzio. Sarah non credeva ai suoi occhi. La carrozza che si era fermata davanti alla modesta pensione dove alloggiava, nel piccolo villaggio chilometri lontano dal maniero, portava il sigillo dei Wolfe. Il cuore le balzò in gola. Ma non fu Nickolas a scendere: fu Timoty. Il vecchio maggiordomo si avvicinò con passo lento, il bastone che batteva sul selciato, lo sguardo serio ma illuminato da una luce che Sarah non ricordava di aver mai visto. — Timoty… — mormorò lei, incredula. — Cosa ci fate qui? Lui si tolse il cappello, chinando appena il capo. - Sono venuto a prendervi, signorina Wolton. Sarah serrò le mani, tremando. — Io… non posso tornare. Non dopo tutto quello che è successo. Timoty inspirò a fondo. Poi, con voce grave e calda insieme, le svelò il segreto che aveva custodito troppo a lungo. — Sapete perché, tra tante giovani donne, fu scelta proprio voi per quel posto? Non è stato un caso, Sarah. Non fu nemmeno un capriccio del destino. Fui io. Lei lo fissò, sbalordita. —Voi…? —Sì. — annuì. — Vi ho osservato. Negli occhi vostri vidi qualcosa che nessun'altra possedeva una luce capace di oltrepassare le tenebre. Capace di arrivare là dove nessuno osava. Per questo vi volli al maniero. Per questo vi misi accanto a lui. — La voce del vecchio tremò, ma non perse la sua fermezza. — Perché solo voi avevate la chiave per sciogliere le catene che imprigionano il cuore del conte. Sarah restò muta, scossa fino alle ossa. Timoty ha fatto un passo avanti. — E non mi sbagliavo. In questi tre mesi, milady, egli ha capito. Ha capito che senza di voi non c'è vita, solo cenere. È tempo che torniate. Non per lui soltanto… ma anche per voi stessa. Un silenzio colmo di lacrime non versate si distese tra loro. Sarah abbassò lo sguardo, le mani serrate contro il petto. Il pensiero di Nickolas la feriva ancora, eppure bruciava dentro di lei come una fiamma che non si era mai spenta. — Timoty… — sussurrò, rotta dall'emozione. — E se fosse troppo tardi? Il vecchio la fissò negli occhi, come un padre che sprona la figlia a non arrendersi. — Non è mai troppo tardi per l'amore vero. Il grande salone del maniero tremava della furia del conte Wolfe. La voce tonante rimbombava tra le pareti di pietra, facendo correre i passi concitati dei servi, richiamati in fretta e in silenzio, come stormi spaventati. Sarah, ancora bagnata dal viaggio, con la valigia stretta in mano, non riusciva a muovere un passo. Non era certo questo l'abbraccio che si era aspettata al suo ritorno. Gli occhi verdi lo fissavano sgomenti, quasi feriti. — Timoty! — urlò Nickolas, e l'eco della sua voce si abbatté come un tuono. Il vecchio maggiordomo appare dalla galleria, con il viso scavato dall'apprensione. —Milord…? Con uno strattone, Wolfe attirò Sarah al centro del salone, accanto a sé. Lei barcollò, cercando di liberarsi, ma la sua presa era troppo decisa. Il silenzio calò, greve, rotto solo dal crepitio dei camini. Ogni servitore aveva gli occhi spalancati, il fiato sospeso. — La signorina Wolton è tornata! — tuonò Wolfe, la voce graffiata dall'emozione trattenuta, gli occhi scuri fissi su di lei. Poi, abbassando lo sguardo, la fissò dritta in volto. E per la prima volta, da quando Sarah lo conosceva, le sorrise. Un sorriso vero, sincero, quasi disarmante. Sarah sentì il cuore fermarsi un istante. Poi, con un gesto imperioso, Wolfe si girò verso la servitù. — Ma non è più la vostra governante. — Pausa, carica di elettricità. — D'ora in avanti... saluta la futura Lady Wolfe. Un mormorio incredulo si diffonde come un'onda. Le mani delle cameriere corsero a coprire bocche spalancate, gli sguardi dei servi si incrociarono, tra sorpresa e soggezione. Sarah rimase pietrificata. Le parole le avevano tagliato il respiro. Si voltò verso Nickolas, incapace di parlare, le guance accese e gli occhi lucidi. Era quello il modo in cui aveva scelto di dichiararsi? Davanti a tutti? Lei non sapeva se ridere, piangere… o scappare ancora. Sarah spalancò gli occhi, il cuore in tumulto. Tutti quegli sguardi addosso,il brusio sommesso dei servitori che non vedevano l'ora di trasformare quell'annuncio in un nuovo fiume di pettegolezzi… tutto la schiacciava. — Milord… — balbettò, la voce rotta. — Come… come potete decidere così, davanti a tutti… senza chiedermi nulla? Un lampione scuro attraversò lo sguardo di Nickolas. — Non vi ho forse dato abbastanza prove di ciò che siete per me? — ribatté, il tono basso ma velenoso. — O volete dirmi che vi dispiace… di non essere più solo la mia governante? Sarah strinse le mani, tremante. — Io… non è questo… — riuscì a dire, mordendosi il labbro. Poi, con un coraggio che non sapeva di avere, lo fissò negli occhi davanti a tutta la servitù. — Volevo che foste voi, Nickolas, e non il Conte Wolfe, a chiedermelo. Il silenzio che seguì fu assordante. I servi trattennero il fiato, Timoty abbassò appena il capo, un lampo di complicità e orgoglio per quella giovane donna che aveva osato sfidare il lupo sul suo stesso terreno. Nick rimase immobile, le labbra serrate, lo sguardo che bruciava. Per un istante parve pronto a esplodere... ma invece rimase lì, trafitto da quelle parole. Sarah lo aveva spiazzato di nuovo. Gli occhi grigi del conte lampeggiavano come lame. Il silenzio nel salone era così denso da soffocare; nessuno dei servi osava muoversi, come se anche il più piccolo respiro potesse innescare l'ira del padrone. — Non mentite a me, Sarah… — sibilò Nickolas, avanzando di un passo, la voce più tagliente del temporale che scuoteva le finestre. — Tre mesi lontana… e volete farmi credere che nessuno vi abbia guardata, desiderata, corteggiata? Sarah sbiancò, stringendo i pugni ai lati della gonna per non tremare. Fece un passo indietro, ma la voce, pur spezzata, rimase ferma: — State sragionando, milord. Non c'è nessuno. Non c'è mai stato nessuno. Quelle parole caddero tra loro come un colpo di spada. Il petto di Nickolas si sollevò, il respiro irregolare. Non riuscivamo a decifrarla, non riuscivamo a contenere l'angoscia feroce che lo divorava: la paura di perderla, di essere ridicolizzato, di averla resa sua... solo per vedersela scivolare tra le dita. I suoi occhi grigi si fissarono nei verdi di lei, e per un attimo non furono il conte e la governante, ma soltanto un uomo disperato e una donna ferita. Timoty si mosse leggermente, rompendo la tensione insostenibile. — Milord... forse non è questo il momento. Nick si voltò di scatto, la mascella contratta, ma non rispose. Poi tornò a fissare Sarah: — Nessuno, dite… — mormorò con un ghigno che non nascondeva la fragilità sottostante. — Allora dimostratelo. E si fece avanti, colpendo tutti con quelle parole incendiarie. Nickolas serrò i denti, lo sguardo d'acciaio puntato su di lei. — Bene, signorina Wolton… volete convincermi che non c'è nessuno? Convinciteli tutti, qui, adesso. Un brusio sordo attraversò la servitù. Gli occhi dei servi, spalancati, oscillavano tra il conte e Sarah, come spettatori di un duello mortale. Timoty fece un mezzo passo avanti, ma Nick con un gesto secco della mano lo zittì. — Dite a questi muri, a questi testimoni — continuò il conte, la voce carica di veleno — che appartenete solo a me. Che non siete fuggita da me, che non siete tornata per dovere... ma per desiderio. Sarah impallidì, il cuore che martellava contro le costole. — Milord… non potete… — balbettò, la gola secca. — Oh sì che posso — la interruppe lui, un ghigno crudele a mascherare il tremito interiore. — Se dite la verità, allora non avrete paura a dichiararla qui. Ora. Il silenzio era glaciale. Sarah avvertì il peso di decine di occhi su di lei. Senti la trappola scattare, ma anche l'orgoglio ribollirle dentro. Ispirò profondamente. Poi, con la voce ferma, più di quanto si aspettasse, disse: — Non ho nessuno. Non ho mai avuto nessuno. Ma non sono vostra proprietà, milord. Non sono un trofeo da esibire davanti ai vostri servi. Un mormorio si levò nella sala. Gli occhi grigi di Nickolas si spalancarono per un istante: non si era aspettato una ribellione così pubblica. Timoty la fissava con un lampone di rispetto, mentre gli altri servi si scambiavano occhiate sconcertate. Per la prima volta, il lupo era stato colpito al cuore davanti al suo stesso branco. La voce di Nickolas esplose nel salone come un tuono, tanto che alcuni cameriere trasalirono e fecero il segno della croce. — Perché diavolo siete tornata, allora?! — urlò, il volto contratto dalla furia, gli occhi grigi che bruciavano di dolore più che di collera. — Se non volete essere mia, se non volete dichiararlo davanti a tutti, perché avete osato rientrare in questo maniero?! Sarah lo fissò, il cuore martellante, ma non abbassò lo sguardo. — Perché io… — la voce le tremò, poi si fece più ferma — non sono tornata per voi, milord. Sono tornata per me stessa. Un silenzio cadde, denso come piombo. Nick sbiancò, le labbra serrate. Sembrava sul punto di stritolarla con lo sguardo, eppure dentro di lui qualcosa si incrinava: quella risposta lo aveva ferito più di qualsiasi insulto. Timoty inspirò il pianoforte, come se stesse trattenendo il respiro per il suo padrone. I servi, immobili, attendevano. Nick fece un passo avanti, il volto a un soffio da quello di Sarah. — Non mentire. — La voce, ora, era un sussurro velenoso, quasi spezzato. — Non siete tornata per voi… siete tornata perché senza di me non sapete resistere. Sarah si irrigidì. — No, signore. — replicò, decisa, gli occhi verdi che brillavano. — Sono tornata perché senza di voi… non posso vivere. Un mormorio soffocato scosse la servitù. Nick rimase immobile, colpito da quella confessione inaspettata come da una lama. Il silenzio nel salone diventò irreale. Tutti i servi trattennero il fiato, persino il fuoco del camino sembrò smettere di crepitare. Nickolas Wolfe, il lupo nero del maniero, il conte che nessuno aveva mai visto piegarsi, era lì, in piedi davanti a lei. E le parole che uscivano dalla sua bocca non erano più ordini, né minacce. Erano una confessione nuda, brutale, quasi disperata:— Sono stati tre mesi d'inferno, Sarah… — disse, e la voce gli si spezzò un istante. — Tre mesi senza di te. Fece un passo verso di lei, il volto scolpito dal tormento. — Non voglio più vivere un solo attimo da ora in poi senza di te. Ti amo. Un mormorio incredulo scosse la sala. Una cameriera portò la mano alla bocca, Timoty abbassò il capo con un lampo negli occhi: ce l'aveva fatta. Sarah rimase immobile, le labbra socchiuse, il cuore che batteva così forte da sentirlo nelle orecchie. Non se l'aspettava. Non così. Non lì, davanti a tutti. Nickolas fece un altro passo, ormai a un soffio da lei. I suoi occhi grigi, per la prima volta, non erano gelidi: erano pieni, intensi, scoperti. — Non ho più corazze, Sarah. — sussurrò, quasi tremando. — Mi hai distrutto e mi hai salvato. Io... ti amo. Tutta la sala tratteneva il respiro, come se anche le pareti stesse aspettavano la risposta di lei. Il silenzio si spezzò come cristallo. Sarah aveva gli occhi lucidi, le mani tremanti, ma la voce — quando uscì — fu chiara, limpida, senza esitazioni: — Anche io… — sussurrò, guardandolo dritto negli occhi. — Anche io vi amo, Nickolas. Un boato sommesso percorse la sala. Qualcuno fra i servitori lasciò cadere un vassoio, una cameriera si portò la mano al petto. Timoty abbassò il capo e sorrise appena, come chi sa di aver visto finalmente compiersi ciò che aveva sperato. Nick rimase immobile per un attimo, colpito al cuore da quelle due parole. Non più conte, non più lupo: solo un uomo che aveva atteso quella risposta per troppo tempo. Le mani gli tremarono, poi la afferrò, ma stavolta senza brutalità, senza autorità: la strinse a sé come se potesse finalmente respirare. — Dio… Sarah… — mormorò tra i capelli di lei. — Non farmi più questo. Non lasciarmi mai più. Lei si abbandonò al suo petto, il profumo familiare che le riempiva i polmoni, il calore delle sue braccia che non erano più una prigione ma un rifugio. Tutta la servitù tratteneva il fiato, consapevole che stava assistendo a un momento che cambiava per sempre la storia del maniero. Nick si scostò un attimo, la televisione negli occhi e, con voce ferma, disse: — Non più padrona e servo, non più gioco di potere. Da oggi, davanti a tutti, siete mia pari. Da oggi siete Lady Wolfe. Il salone esplose in un brusio incredulo. Timoty chiuse per un attimo gli occhi, come se avesse visto una profezia compiersi.per la prima volta, non erano gelidi: erano pieni, intensi, scoperti. — Non ho più corazze, Sarah. — sussurrò, quasi tremando. — Mi hai distrutto e mi hai salvato. Io... ti amo. Tutta la sala tratteneva il respiro, come se anche le pareti stesse aspettavano la risposta di lei. Il silenzio si spezzò come cristallo. Sarah aveva gli occhi lucidi, le mani tremanti, ma la voce — quando uscì — fu chiara, limpida, senza esitazioni: — Anche io… — sussurrò, guardandolo dritto negli occhi. — Anche io vi amo, Nickolas. Un boato sommesso percorse la sala. Qualcuno fra i servitori lasciò cadere un vassoio, una cameriera si portò la mano al petto. Timoty abbassò il capo e sorrise appena, come chi sa di aver visto finalmente compiersi ciò che aveva sperato. Nick rimase immobile per un attimo, colpito al cuore da quelle due parole. Non più conte, non più lupo: solo un uomo che aveva atteso quella risposta per troppo tempo. Le mani gli tremarono, poi la afferrò, ma stavolta senza brutalità, senza autorità: la strinse a sé come se potesse finalmente respirare. — Dio… Sarah… — mormorò tra i capelli di lei. — Non farmi più questo. Non lasciarmi mai più. Lei si abbandonò al suo petto, il profumo familiare che le riempiva i polmoni, il calore delle sue braccia che non erano più una prigione ma un rifugio. Tutta la servitù tratteneva il fiato, consapevole che stava assistendo a un momento che cambiava per sempre la storia del maniero. Nick si scostò un attimo, la televisione negli occhi e, con voce ferma, disse: — Non più padrona e servo, non più gioco di potere. Da oggi, davanti a tutti, siete mia pari. Da oggi siete Lady Wolfe. Il salone esplose in un brusio incredulo. Timoty chiuse per un attimo gli occhi, come se avesse visto una profezia compiersi.per la prima volta, non erano gelidi: erano pieni, intensi, scoperti. — Non ho più corazze, Sarah. — sussurrò, quasi tremando. — Mi hai distrutto e mi hai salvato. Io... ti amo. Tutta la sala tratteneva il respiro, come se anche le pareti stesse aspettavano la risposta di lei. Il silenzio si spezzò come cristallo. Sarah aveva gli occhi lucidi, le mani tremanti, ma la voce — quando uscì — fu chiara, limpida, senza esitazioni: — Anche io… — sussurrò, guardandolo dritto negli occhi. — Anche io vi amo, Nickolas. Un boato sommesso percorse la sala. Qualcuno fra i servitori lasciò cadere un vassoio, una cameriera si portò la mano al petto. Timoty abbassò il capo e sorrise appena, come chi sa di aver visto finalmente compiersi ciò che aveva sperato. Nick rimase immobile per un attimo, colpito al cuore da quelle due parole. Non più conte, non più lupo: solo un uomo che aveva atteso quella risposta per troppo tempo. Le mani gli tremarono, poi la afferrò, ma stavolta senza brutalità, senza autorità: la strinse a sé come se potesse finalmente respirare. — Dio… Sarah… — mormorò tra i capelli di lei. — Non farmi più questo. Non lasciarmi mai più. Lei si abbandonò al suo petto, il profumo familiare che le riempiva i polmoni, il calore delle sue braccia che non erano più una prigione ma un rifugio. Tutta la servitù tratteneva il fiato, consapevole che stava assistendo a un momento che cambiava per sempre la storia del maniero. Nick si scostò un attimo, la televisione negli occhi e, con voce ferma, disse: — Non più padrona e servo, non più gioco di potere. Da oggi, davanti a tutti, siete mia pari. Da oggi siete Lady Wolfe. Il salone esplose in un brusio incredulo. Timoty chiuse per un attimo gli occhi, come se avesse visto una profezia compiersi.il calore delle sue braccia che non erano più una prigione ma un rifugio. Tutta la servitù tratteneva il fiato, consapevole che stava assistendo a un momento che cambiava per sempre la storia del maniero. Nick si scostò un attimo, la televisione negli occhi e, con voce ferma, disse: — Non più padrona e servo, non più gioco di potere. Da oggi, davanti a tutti, siete mia pari. Da oggi siete Lady Wolfe. Il salone esplose in un brusio incredulo. Timoty chiuse per un attimo gli occhi, come se avesse visto una profezia compiersi.il calore delle sue braccia che non erano più una prigione ma un rifugio. Tutta la servitù tratteneva il fiato, consapevole che stava assistendo a un momento che cambiava per sempre la storia del maniero. Nick si scostò un attimo, la televisione negli occhi e, con voce ferma, disse: — Non più padrona e servo, non più gioco di potere. Da oggi, davanti a tutti, siete mia pari. Da oggi siete Lady Wolfe. Il salone esplose in un brusio incredulo. Timoty chiuse per un attimo gli occhi, come se avesse visto una profezia compiersi.